Il vero mostro non è Frankenstein: è Nate Jacobs. E Jacob Elordi lo sa bene.
Nate Jacobs non ha bisogno di cicatrici, bulloni o un laboratorio in penombra per terrorizzare. Non gli serve nemmeno la leggenda di Frankenstein. Nate attraversa Euphoria come un’ombra elegante e velenosa, un ragazzo che cresce in una famiglia che confonde la virilità con l’armatura emotiva e l’orgoglio con l’assenza di una coscienza. In apparenza è il quarterback perfetto. Nella sostanza è un implosione continua. Un vortice di bisogno, manipolazione, dominio. Jacob Elordi lo interpreta con una precisione quasi chirurgica, come se scavasse nella pelle del personaggio con una lametta, senza pietà, fino a mostrarne l’osso vivo. Quando Elordi appare sullo schermo, il pericolo entra nella stanza senza bussare. La sua recitazione non ha bisogno di alzare la voce per farti capire che sta per accadere qualcosa di irreparabile. Ogni gesto di Nate pesa più di una minaccia detta a mezza bocca.
Gli occhi si stringono. La mascella si irrigidisce. Le mani si chiudono. Non serve di più. È così che funzionano i veri mostri: camminano in silenzio, nessuno li vede arrivare. Elordi però non interpreta Nate con compiacimento. Gli offre un corpo che vibra di contraddizioni. Rabbia e infantile smarrimento convivono senza mai annullarsi. Lo guardi distruggere le persone che dice di amare e, in un secondo, lo sorprendi con un lampo di fragilità che non redime ma spiega. L’attore scava nel retrobottega di questo ragazzo cresciuto con un padre che pretende perfezione e un mondo che gli chiede di essere invincibile. L’invincibilità, in Euphoria, ha sempre un prezzo: la disumanizzazione.
Frankenstein è innocente: il vero terrore è Nate Jacobs, col volto di Jacob Elordi
Per questo, quando lo stesso Elordi indossa invece il volto della Creatura nel Frankenstein di Guillermo Del Toro, succede qualcosa di inatteso. Lì, protesi o meno, l’attore restituisce un essere che non ha nulla di mostruoso. Solo ferite. Abbandono. Un desiderio disperato di esistere davanti allo sguardo di qualcuno che non fugga. Elordi disegna movimenti lenti, quasi rituali, e fa scomparire ogni brutalità. Questa Creatura non minaccia. Chiede. E lo fa in un modo talmente vulnerabile da ricordarti che l’orrore non nasce mai dal diverso, ma da chi sceglie di non ascoltare. Tra Nate e la Creatura corre un filo sottile e crudele: entrambi sono figli di un rifiuto originario. Ma solo uno decide di trasformare la mancanza in violenza. Nate incarna una forma di tossicità quotidiana, riconoscibile, che non ha bisogno di effetti speciali. È lo specchio di una mascolinità che implora accettazione ma risponde con il controllo; che non regge la complessità, e allora punisce.

In ogni relazione, Nate usa l’amore come ricatto. Maddy, Cassie, Jules. Le trascina dentro una giostra emotiva fatta di promesse e paura. Elordi non lo giustifica mai. Lo illumina. E attraverso quella luce, il pubblico vede un ragazzo che ha dimenticato come si ama senza ferire. La Creatura, invece, ferisce perché non sa parlare. Nate, perché non sa ascoltare.
È questa la differenza che trasforma il personaggio di Euphoria nel vero “mostro”: Nate conosce perfettamente la portata dei suoi gesti. Li calibra, li nasconde, li espone quando vuole ottenere qualcosa. Le sue colpe non affondano nell’incomprensione, ma nella volontà. Ed è qui che il parallelismo con Frankenstein diventa spietato: Del Toro costruisce un essere che desidera soltanto essere visto; Euphoria mostra un ragazzo che vede tutto, tranne il male che fa. Elordi, con una doppia interpretazione che sembra un esperimento di specchi, ci ricorda che la mostruosità non nasce dalla carne. Nasce dalla paura, dalla rabbia che non trova parole. Nasce da chi, come Nate Jacobs, confonde la distruzione con l’amore.
