Ci sono film che non si limitano a intrattenere, ma ti scavano dentro: “Frankenstein” di Guillermo del Toro è uno di questi e se ne consiglia la visione stasera su Netflix. Un’opera che trasforma l’immaginario gotico di Mary Shelley in una riflessione struggente su identità, amore e colpa. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, ha raccolto applausi unanimi e ovazioni globali per la sua potenza visiva e il suo cuore fragile. Non è un semplice adattamento, ma una liturgia di immagini e sentimenti dove la paura cede il passo alla compassione.
Del Toro, autore premio Oscar per La forma dell’acqua, racconta un mondo sospeso tra luce e tenebra. Il suo Frankenstein (2025) è un film che parla di umanità più che di mostri, e lo fa con un linguaggio estetico raffinato, denso di simbologia. È un cinema che tocca corde profonde e lascia segni invisibili anche dopo la fine dei titoli di coda.
La storia si apre tra i ghiacci dell’Artico. Un gruppo di esploratori trova Victor Frankenstein, interpretato da Oscar Isaac, in fin di vita. La sua voce racconta la follia che lo ha consumato: la creazione di una Creatura formata da resti umani e da un sogno di onnipotenza. Ma ciò che nasce come miracolo diventa presto maledizione. Victor perde se stesso, mentre la sua creatura — interpretata da Jacob Elordi — cerca disperatamente un senso, un nome, uno sguardo che non sia di orrore.
In questa versione, Del Toro ribalta il mito. Il “mostro” non è una minaccia, ma una ferita viva che parla della nostra incapacità di accogliere la diversità. Con la sua fisicità estatica e dolente, Elordi incarna una Creatura che commuove più di quanto spaventi. Il regista rinuncia alle cuciture e agli eccessi visivi: preferisce il dettaglio, la carezza, il silenzio. Ogni gesto diventa una preghiera, ogni sguardo un grido trattenuto.
Accanto a Isaac ed Elordi, Mia Goth è Elizabeth, promessa sposa e simbolo dell’amore irraggiungibile. Nel ruolo dell’enigmatico mecenate Henrich Harlander troviamo Christoph Waltz, mentre Felix Kammerer, Charles Dance e Lars Mikkelsen completano un cast di livello internazionale. Ogni interprete dona sfumature autentiche, creando un mosaico di anime fragili e inquiete. La fotografia firmata da Dan Laustsen avvolge tutto in un chiaroscuro di nebbie, candele e gelo.
Frankenstein non spaventa. Ti invita a guardare l’abisso con tenerezza. È una fiaba nera che parla di paternità e abbandono, di colpa e redenzione. Un viaggio dentro il dolore, dove la vera mostruosità è l’indifferenza. E sarebbe da ‘indifferenti’ non guardarlo stasera.

Frankenstein di Guillermo del Toro, la recensione: tre motivi per cui vale la pena vederlo stasera
1. Perché umanizza il mito
Del Toro restituisce profondità alla leggenda. La Creatura non è più un esperimento fallito, ma una metafora dell’anima umana. La sua ricerca d’amore diventa la nostra. Ogni lacrima è un frammento di verità. In un’epoca di maschere, questo film toglie tutto: lascia solo la carne viva dell’emozione.
2. Perché è un capolavoro visivo
Ogni scena è un quadro. Gli interni sembrano usciti da un sogno vittoriano, i paesaggi artici risuonano come un cuore che si ferma. La luce filtra come una benedizione, i costumi dialogano con la storia, la musica di Alexandre Desplat accompagna ogni battito con grazia malinconica. È cinema d’autore ma accessibile, capace di rapire anche chi non conosce il romanzo.
3. Perché ha il coraggio dell’imperfezione
Del Toro non cerca la perfezione, cerca l’anima. E questo lo rende vero. Ci sono momenti enfatici, forse eccessivi, ma è proprio lì che il film vibra. La regia è libera, viscerale, senza paura di essere troppo. In un mondo di storie prevedibili, Frankenstein osa ancora emozionare.
Visualizza questo post su Instagram
La pellicola è stata distribuita con formula ibrida: sale selezionate e Netflix dal 7 novembre 2025. Sui social è già diventata un fenomeno. Cinefili e spettatori comuni condividono una sensazione simile: quella di aver visto qualcosa di raro, un film che parla di noi più che dei suoi protagonisti. Un cinema che non cerca consenso, ma verità. Perché “Frankenstein” non è un horror, è una confessione. E ci chiede di fare lo stesso: guardare dentro, accettare le crepe, riconoscere le nostre ombre. Alla fine, resta una domanda che non smette di bruciare: chi è davvero il mostro? Forse non chi è nato dalla scienza, ma chi non riesce più a provare empatia. Ed è per questo che, stasera, vale la pena vederlo.
