
L’architettura, la Comunità e l’urbanistica
Testo di Adriano Olivetti
n.2 settembre/ottobre 2018
L’Ivrea di Adriano Olivetti, stella danzante nel panorama industriale italiano, è diventata da qualche mese sito Unesco, riconosciuta come patrimonio dell’umanità in omaggio all’utopia del lungimirante imprenditore. Salutiamo l’avvenimento ripubblicando l’editoriale che lo stesso Olivetti aveva scritto per il primo numero di Zodiac, nel tentativo di ridar voce ancora una volta a un pensiero che ha saputo rivoluzionare la vita in fabbrica, intrecciando etica, politica, architettura e urbanistica.
Licenziando alle stampe questa nuova rassegna d’architettura, vogliamo informare il lettore delle preoccupazioni che danno giustificazione culturale alla fatica dei redattori e soffermarci in un breve esame di coscienza. Il contributo sovranazionale di Zodiac non varrebbe da solo a giustificare il nostro impegno: converrà dichiarare che è tra noi un proposito più alto, anche se, temiamo, esso è forse al di là delle nostre forze.
L’architetto, da solo o come guida riconosciuta di un gruppo di collaboratori e interpreti, partecipa naturalmente delle forme, delle vie nuove che il pensiero e l’elaborazione culturale del suo tempo segnano con una non sempre visibile traccia. Nell’oceano inconscio in cui esse si agitano emergono come isole illuminate le testimonianze dei maestri, dei genii che ce le hanno rivelate per primi. Tali forme sono state sottoposte ad una evoluzione profonda, come sono mutate le circostanze storiche; ciò è sin troppo noto. Così che esse hanno oggi in sé un significato interiore non ancora del tutto evidente, poiché è ancora in atto lo svolgimento di una crisi. Dal momento in cui il mondo liberale entrava in crisi all’indomani della prima guerra mondiale, anche la vecchia architettura entrava in crisi. Un’umanità nuova attende ormai con ansia in ogni campo gli strumenti del proprio riscatto. Nella nostra epoca di transizione, bisogna dunque ammettere che esiste una crisi di valori nell’architettura. Ma le molte incertezze e il disorientamento di cui essa soffre sono il frutto di incertezze e di disorientamento esistenti nel campo ideologico, conseguenza di deviazioni, abdicazioni da una retta coscienza della persona umana. (Così certi abbandoni populisti, come la fretta nell’adottare certi schemi che, pur se nuovi e apparentemente adatti all’ambiente in cui erano nati, si rivelano presto incoerenti anche nella nuova dimora). E allora bisogna ricorrere deliberatamente all’istanza felice, determinante, quella che presto o tardi è destinata a trionfare delle incertezze, degli ostacoli, dell’immaturità: il bisogno, la necessità di radicamento, di ritrovare nella terra, nel paesaggio, nelle tradizioni, anche le forme architettoniche, l’affetto degli uomini per la loro comunità, il sentimento totale e naturale del luogo. Questo bisogno, largamente e profondamente sentito, ha avuto purtroppo manifestazioni improprie e inefficaci.
La convinzione infatti di dover rispettare i sentimenti, il desiderio di partecipare delle ansie, delle speranze, dei timori di una popolazione, ha deviato più di una volta il nuovo linguaggio architettonico, che, anziché innestare nuovi rigogliosi ceppi nelle vecchie radici, rinnovando, purificando, esaltando i nuovi bisogni delle anime, si è immiserito in formali e spesso demagogici omaggi al folklore.
Il radicamento che noi intendiamo è invece tutt’uno con la nascita della Comunità nuova, per la quale mondo spirituale e mondo materiale si riconciliano ad unità, onde l’architetto è chiamato, destinato a darle il volto nuovo inconfondibile.
Il concetto di Comunità concreta, radicata, corrisponde a due altre profonde, vitali necessità:
1. Creare un’autorità democratica nuova di cultura stabile, fertile, elevata, atta a edificare la nuova città, che vivrà soltanto di scelte omogenee, organiche, unitarie. Questa autorità vigile e appassionata, il committente nuovo che non sia né il privato né lo Stato, manca nella società moderna; ed è qui la causa di tutti i mali. Stabilita la nuova autorità, il problema si riduce a un dialogo tra l’autorità e l’architetto o gli architetti che essa avrà scelto. Le attuali discussioni sull’architettura diverranno più felici e meno sterili.
2. Per dare vita a un’autentica Comunità occorrono delle generazioni. Quanti secoli durò la fabbrica di Venezia, e quanti anni ci vollero per dar ordine alla Piazza dei Miracoli di Pisa? Occorre dunque la continuità nel tempo, una tenace, continua opera di ricerca, di affinamento. Il volto della città nuova non può essere affidato all’estro di un uomo, ma a un sistema (una civiltà di cultura decentrata). La psicologia della forma e lo stesso concetto di ‘campo’ che appare oggi la scoperta più avanzata della psicologia moderna, ci confortano nel nostro assunto. L’Eupalino ripensato, rivissuto da Valéry, vedeva nel costruito tempio i tratti, e con essi l’armonia, della fanciulla amata. L’architetto sente ora vibrare in sé i nuovi e più intensi impulsi, assai più complessi motivi; i ‘campi’ che gli danno espressione e che lo nutrono, attingono da forme nuove, la cui vita si sta appena inverando.
Se così è, è oggi compito fascinoso e difficile dell’architettura l’intravvedere se le forme singole siano capaci per la loro stessa coerenza, per la loro natura, ad assumere la loro giusta posizione nel luogo più vasto ove sono destinate a diventare materia.
Giacché un fior di roccia sa da sé crescere di fronte ai silenzi immensi e le nevi perenni. E allo stesso modo l’architetto sa che la sua opera è inscindibile, indissolvibile dall’ambiente. Nella sua interpretazione creativa egli diventa un urbanista, lo voglia o non lo voglia. Urbanistica e architettura si confondono, e la prima comprende la seconda: a questa condizione nessuno potrà sfuggire.
Il rapporto tra l’architetto e la ‘sua’ comunità diventerà la sua legge, coscienza morale, segnerà la sua partecipazione creativa alla nascita della nuova Comunità, illuminata dalla fiamma spirituale di coloro che l’avranno nutrita della loro sostanza umana.
Affinché essa diventi un luogo ove l’uomo possa coltivare il suo cuore, abbellire la sua anima, affinare l’intelligenza; onde la città dell’uomo potrà finalmente volgere verso la città di Dio.
Questo testo è stato pubblicato da Adriano Olivetti nel 1957 come editoriale del primo numero della rivista Zodiac, con il titolo Una nuova rivista d’architettura. Successivamente il testo è stato inserito dall’autore nel volume Città dell’uomo (Edizioni di Comunità, 1960; 2015), con la omissione del primo capoverso e con il titolo L’architettura, la Comunità e l’urbanistica








