Yeva Sai incanta di nuovo dopo Mare Fuori: nel film La bambina di Chernobyl il dolore diventa luce.
C’è un momento, in La bambina di Chernobyl, in cui il silenzio pesa più delle parole. Non è solo il blackout causato dal temporale a oscurare la casa dove Christian e Nina si ritrovano bloccati. È la tensione emotiva, il passato che torna a galla, il bisogno disperato di capirsi e perdonarsi. Massimo Nardin, al suo esordio nel lungometraggio, sceglie l’essenziale: una casa, due volti, una notte. E la memoria. La sua regia punta tutto sulla sottrazione, sul ritmo interiore, sulla potenza del non detto. A fare da cardine a questo microcosmo drammatico è Yeva Sai, ormai consacrata al grande pubblico per il ruolo di Alina in Mare Fuori, qui in una prova attoriale intensa e sorprendente.
Chi conosce Yeva Sai solo per il teen drama ambientato nel carcere minorile resterà spiazzato. Nina non urla, non corre, non si ribella. Ma brucia dentro. È una donna che porta sulle spalle non solo la fragilità di una relazione in frantumi, ma anche il peso di un passato che non ha mai raccontato davvero. Un passato che riporta al disastro di Chernobyl, all’infanzia strappata, all’accoglienza in Italia, alle ferite invisibili che non guariscono con il tempo. L’attrice ucraina, naturalizzata italiana, costruisce il personaggio con una delicatezza spiazzante. I suoi silenzi sono pieni. I suoi sguardi, taglienti. Ogni gesto è misurato, ogni parola ha un peso. La sua interpretazione regge tutto il film con una profondità rara nel cinema italiano contemporaneo.
Un film che parla piano, ma colpisce forte: Yeva Sai commuove ancora dopo Mare Fuori
Accanto a Yeva, Vincenzo Pirrotta interpreta Christian, un uomo incastrato nel proprio senso di colpa. Il loro confronto non è mai urlato, ma progressivamente devastante. In una notte claustrofobica, che va dal tramonto del 31 ottobre all’alba del primo novembre, si srotola una tensione crescente. I dialoghi sono affilati, la regia quasi teatrale nella sua scelta di concentrare tutto in uno spazio chiuso. Ma ciò che rende questo film qualcosa di più di un semplice dramma psicologico è il modo in cui intreccia l’intimo con il collettivo. La memoria del disastro nucleare, l’accoglienza dei bambini ucraini nelle famiglie italiane, la guerra ancora viva nelle cronache: tutto si fonde in una narrazione che parla del presente senza mai urlare l’attualità. Una ferita aperta, raccontata con pudore e verità.

Girato interamente nelle Marche, con cast tecnico e artistico in gran parte locale, il film assume anche un valore identitario forte. I paesaggi sono parte integrante della storia: non fanno solo da sfondo, ma respirano con i personaggi, li avvolgono, li riflettono. Nardin mostra un territorio vivo, lontano dagli stereotipi da cartolina, ma autentico, vivido, capace di accogliere e restituire emozione. La bambina di Chernobyl non cerca effetti facili. È un film che chiede di essere ascoltato, non solo guardato. Che lavora sulla memoria, sull’empatia, sulla possibilità di perdonarsi e di ricominciare, anche quando tutto sembra perduto. Yeva Sai, con questo ruolo, alza l’asticella. E si candida a diventare una delle attrici più interessanti della sua generazione.
