Su Netflix tra i più visti c’è Back to Black: il biopic tan contestato su Amy Winehouse.
Arriva un momento in cui il successo non basta più: la storia di Amy Winehouse, portata sullo schermo dal regista Sam Taylor‑Johnson nel film Back to Black, è proprio quel tipo di racconto. Il film ripercorre dalla Londra di Camden l’esplosione di una voce unica, la scalata al successo con l’album Back to Black, la relazione tormentata con Blake Fielder-Civil, e la tragica partenza di Amy all’età di 27 anni. E ora, mentre decine di migliaia di utenti lo scoprono su Netflix, ci si domanda: perché una pellicola così criticata trova nuova linfa proprio sulla piattaforma? Nel primo atto del film vediamo la giovane Amy intenta a costruire la sua identità musicale, con quel sound fra jazz, soul, Motown e un pizzico di anarchia. È la parte che funziona meglio: l’energia luminosa prima della caduta. La sceneggiatura prova a raccontare anche la famiglia (il padre Mitch, la nonna Cynthia), e l’innamoramento con Blake.
Ma è nel secondo atto che il racconto cambia tono: la dipendenza, la visibilità mediatica, la fragilità. Qui però molti critici notano che il film si trattiene, evita gli spigoli più drammatici, preferendo una versione “amichevole” della storia. Ecco il punto di riflessione. Perché questa scelta? Forse perché raccontare Amy Winehouse in tutta la sua complessità tra disturbi alimentari, dipendenze, stampa martellante, il difficile equilibrio tra genio e autodistruzione richiede uno sguardo più rischioso. E infatti, i critici evidenziano un’evidente soggezione di fronte alla sua protagonista e alle sue lotte. Una scelta che non riesce a creare un film tanto dinamico quanto lo era lei.
In questo senso, il film vive di contraddizioni: ha una protagonista forte. La bravissima Marisa Abela che si è calata nel ruolo con passione, eppure il racconto sembra trattenersi. La messa in scena, le ambientazioni di Camden, i concerti, le hit, tutto richiama ciò che ha reso Amy un’icona. Ma la parte più oscura, la pressione mediatica, l’abuso, il tarlo interiore, vengono trattati come sospesi a mezz’aria. Il risultato? Un biopic che anima la voce e la musica di Amy, ma che resta timido nel sondare il dolore che ha alimentato quel genio. Proprio su Netflix, dove la soglia della visione è bassa ma le aspettative del pubblico alte, film come questo trovano un doppio destino. Da una parte diventano popolari perché trattano un’icona, una storia nota, col traino musicale immediato. Dall’altra, la critica severa accompagna l’uscita.
Quindi, se stai guardando Back to Black su Netflix, chiediti: sei qui per la musica, per la storia, per la figura di Amy Winehouse, o per un ritratto davvero profondo? Amy Winehouse ha scritto canzoni che restano, e la pellicola lo sottolinea bene. Il racconto è più semplice di quanto ci si potesse aspettare: il film talvolta semplifica i conflitti, riducendo il suo percorso a questioni sentimentali anziché al collasso sistemico di una star. Il fatto che su Netflix il film sia fra i più visti ci dice che le storie “nota icona + biopic” funzionano ancora molto bene in streaming, anche se la qualità artistica resta discutibile. Un’occasione per tornare a pensare a Amy Winehouse. La bellezza della sua musica, le contraddizioni della sua vita, la fragilità che spesso nascondiamo dietro l’immagine di una star. Il film non sfrutta tutte le potenzialità del soggetto. Riaccende la curiosità verso la sua figura. E magari, dopo la visione, potresti riscoprire l’album originale, le interviste e completare quel pezzo mancante che questo biopic ha lasciato.
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