L’universo di Ryan Murphy: dove i mostri diventano umani. Ed Gein su Netflix scuote, ma commuove.
Monster: La storia di Ed Gein, approdato su Netflix il 3 ottobre 2025, è il terzo capitolo dell’universo creato da Ryan Murphy e Ian Brennan, dopo Dahmer e I fratelli Menendez. In questo mondo narrativo, ogni stagione scava nel ventre oscuro dell’America, non per celebrare l’orrore ma per mostrarne il riflesso più disturbante: quello che vive dentro di noi. Murphy racconta i mostri reali, ma li spoglia della maschera cinematografica, costringendoci a guardarli negli occhi e a chiederci quanto di loro abiti anche nelle nostre paure più profonde. L’universo di Monster è, prima di tutto, un laboratorio morale. Ogni serie è una seduta collettiva di psicanalisi nazionale: Dahmer, Menendez, Gein. Figure deformi e tragiche, nate da famiglie spezzate, da madri tiranniche, da un’America che reprime e poi esplode.
L’intuizione di Murphy sta nel mostrare il lato umano del male, in una cornice di gelo estetico, fotografia chirurgica e scrittura che non cerca la redenzione, ma la comprensione. È disturbante, ma inevitabile: Murphy ci porta a provare pietà per gli assassini. È un’operazione quasi sovversiva. Lo spettatore si scopre a sentire compassione per un uomo che violava tombe e trasformava i resti in oggetti domestici. Monster: La storia di Ed Gein non invita alla giustificazione, ma alla riflessione. Mostra che la mostruosità nasce dal dolore, dalla deformazione dell’amore, dall’assenza di una carezza nel momento giusto.
Empatizzare con Ed Gein significa entrare in un territorio ambiguo, dove la morale vacilla e l’orrore diventa umano. Murphy costruisce un racconto dove la tenerezza e il disgusto convivono nella stessa inquadratura. Charlie Hunnam regala un Gein fragile, quasi infantile, prigioniero di un legame tossico con la madre (una Laurie Metcalf glaciale e magnetica). È un personaggio che non suscita ammirazione, ma compassione. E quando uno show riesce a farti provare pietà per chi ha incarnato il male assoluto, significa che ha colpito nel segno. Questa è la forza di Murphy: mostrare l’orrore e la sua radice emotiva, rifiutando il bianco e nero del giudizio. Il male non è spettacolo, ma materia viva, da osservare con disagio e lucidità. Murphy dipinge il buio con un’eleganza quasi barocca. Ogni fotogramma di Monster: La storia di Ed Gein sembra costruito come un quadro di Hopper rovesciato, dove la luce non salva ma inchioda. Il silenzio delle campagne del Wisconsin, la casa-labirinto, la figura materna come spettro costante: tutto concorre a creare una dimensione sospesa, ipnotica, disturbante.
Il regista non racconta solo un assassino, ma il sistema che lo ha generato: una società bigotta, violenta, ossessionata dalla purezza morale. In questo senso, Monster è anche una critica al voyeurismo del pubblico, al consumo compulsivo del true crime, al desiderio di trasformare la sofferenza altrui in intrattenimento. Brennan lo ha detto chiaramente: “Conta ciò che guardi”. E Murphy risponde con immagini che feriscono, ma non compiacciono. Monster: La storia di Ed Gein non parla solo di un uomo, ma di un confine. Quello tra empatia e orrore, tra comprensione e condanna. Guardandolo, ci scopriamo vulnerabili: proviamo pietà per un assassino e ci chiediamo perché. È qui che Murphy diventa grande narratore: quando costringe lo spettatore a specchiarsi nel male, a riconoscere la propria ombra. Con questo terzo capitolo, l’universo Monster conferma la sua natura di specchio oscuro dell’America. Ed è proprio per questo che funziona: perché, dietro il sangue e il gelo, racconta qualcosa di intimo, scomodo e profondamente umano.
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