Un ritorno che sa di verità e di rabbia gentile: stasera in tv su Rai Storia alle 21:10 va in onda Tutti giù per terra, il film di Davide Ferrario tratto dal romanzo cult di Giuseppe Culicchia. Un titolo che ha segnato una generazione intera, quella che negli anni Novanta cercava un posto nel mondo e trovava solo precarietà, ironia e sogni stropicciati.
L’Italia che emerge da questa storia è viva, imperfetta, caotica. Un Paese sospeso tra le rovine della Prima Repubblica e il bisogno di una voce nuova. Valerio Mastandrea la incarna in modo magistrale, con il volto ironico e stanco di chi ha già capito tutto troppo presto. È lui Walter, il protagonista che non si ribella ma osserva, che ride per non cadere, che sceglie il cinismo come unica forma di sopravvivenza.
Ferrario, regista indipendente e lucido osservatore della realtà, dirige con mano leggera ma profonda. Torino diventa un personaggio, non solo una città. Le sue strade grigie e i caffè malinconici raccontano più di mille dialoghi. In ogni inquadratura c’è una parte d’Italia, la stessa che allora si affacciava al futuro con timore e sarcasmo.
Tutti giù per terra non è solo una commedia. È un racconto collettivo, un diario generazionale in forma di film. La trama segue Walter, ventiduenne che torna nella casa dei genitori dopo aver vissuto con la zia Caterina a Roma. Studia filosofia, ma lo fa per inerzia. Passa le giornate a osservare, a giudicare, a chiedersi se davvero valga la pena crescere. Attorno a lui ruotano volti che oggi sembrano usciti da un archivio prezioso del cinema italiano: Caterina Caselli è la zia affettuosa e ruvida, Carlo Monni e Adriana Rinaldi interpretano i genitori, Benedetta Mazzini e Anita Caprioli sono due figure femminili che segnano il suo percorso. E poi ci sono apparizioni che oggi fanno storia: Luciana Littizzetto, Vladimir Luxuria, Tommaso Ragno.
Ogni personaggio è un frammento dell’Italia degli anni ’90. Nessuno ha risposte, tutti hanno dubbi. Ferrario li filma con affetto, con quella curiosità che solo il cinema indipendente possiede. È un’opera sincera, priva di retorica, dove la fragilità diventa bellezza.
La colonna sonora del Consorzio Suonatori Indipendenti è la pelle sonora del film. Ritmi ruvidi, parole sospese, una rabbia mai gridata. È la musica di chi cammina da solo, di chi si sente fuori posto ma continua a cercare. Ogni brano amplifica le emozioni di Walter e trasforma Torino in un palcoscenico emotivo. Davide Ferrario dedica il film a Lindsay Anderson, pioniere del Free Cinema inglese. Un gesto simbolico: anche “Tutti giù per terra” vuole rompere gli schemi, raccontare la vita dal basso, senza filtri. È un omaggio al cinema che parla chiaro, che non teme la semplicità, che scava nel quotidiano fino a trovare poesia.
Il film ottenne riconoscimenti e premi nei festival italiani, ma soprattutto conquistò il pubblico giovane. Era un film che “parlava come loro”, con frasi secche, dialoghi veri, silenzi pieni di senso. E proprio per questo divenne un cult, un punto di riferimento per chi negli anni successivi avrebbe raccontato la gioventù senza effetti speciali.
Tutti giù per terra aprì una strada. Senza proclami, senza clamore, ma con autenticità. Anticipò temi che il cinema italiano avrebbe poi riscoperto con Amore tossico di Claudio Caligari o con Radiofreccia di Luciano Ligabue. Tutti film che, come questo, cercavano l’anima dietro la disillusione. Stasera in tv, rivederlo su Rai Storia significa tornare a un’Italia in bianco e grigio, ma piena di parole vere. È un viaggio nel tempo che non pesa, un promemoria di cosa voglia dire sentirsi vivi anche quando si cade. Perché quel titolo, Tutti giù per terra, non parla solo di cadute, ma di rinascite.
Valerio Mastandrea resta il cuore pulsante di questa storia. Giovane, magnetico, ironico. La sua interpretazione segna un’epoca e definisce un modo nuovo di stare in scena: fragile ma fiero, disincantato ma autentico. È il volto di un’Italia che ride per non arrendersi.
Un film che non invecchia, perché continua a parlare a chi si sente sospeso tra sogno e realtà. E che, ancora oggi, ci ricorda che resistere non significa vincere, ma restare veri.
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