Ci sono film che arrivano in silenzio e poi restano per sempre: da oggi su Netflix torna uno di quei titoli capaci di spaccare il pubblico in due. All’uscita fu considerato provocatorio, incompreso, persino “scandaloso”. Eppure, a distanza di anni, appare come uno dei racconti più sinceri sull’amore, la dipendenza e la fragilità dei desideri moderni.
Ambientato in una città americana fatta di chiese, palestre e locali notturni, il film segue la vita di un giovane uomo ossessionato dalla perfezione. Tutto nella sua routine è preciso, ordinato, ripetitivo. Eppure dietro quella disciplina si nasconde una dipendenza invisibile, che lo tiene prigioniero di uno schermo. Finché due donne, diversissime tra loro, non incrinano quella corazza: una incarna il sogno patinato delle commedie romantiche, l’altra la verità imperfetta dell’intimità reale.
Uscito nel 2013, questo film d’esordio di Joseph Gordon-Levitt attore allora amatissimo a Hollywood divenne subito un caso. Perché per la prima volta mostrava la dipendenza dai siti vietati ai minori non come scandalo, ma come metafora della ricerca di controllo e illusione. Lo faceva con ironia, ritmo, e una messa in scena quasi matematica, fatta di gesti che si ripetono finché non diventano prigione.
Nel cast brilla una Scarlett Johansson ipnotica nel ruolo della fidanzata perfetta, tutta apparenze e regole. Accanto a lei, una Julianne Moore intensa e dolente, che rappresenta il dolore, la perdita e la possibilità di rinascere. Completa il quadro Tony Danza, sorprendente nel ruolo del padre, simbolo di un maschile vecchio stampo e orgoglioso. Tra i volti familiari spunta anche Brie Larson, che in poche battute regala una delle scene più tenere del film. Il film ottenne diverse nomination agli Independent Spirit Awards, ai Gotham Awards e agli MTV Movie Awards. Vinse premi per la sua regia d’esordio e per la capacità di trattare con coraggio un tema ancora tabù. Eppure, nonostante il successo nei festival, fu frainteso da una parte del pubblico, che si fermò solo alla superficie provocatoria senza coglierne la tenerezza nascosta.
Il film, originariamente intitolato Don Jon’s Addiction, racconta la crisi di una generazione intrappolata fra ideali romantici e realtà digitali. In una società dove tutto è performance, anche l’amore rischia di diventare uno spettacolo. Il protagonista non è un anti-eroe, ma uno specchio di noi: connessi, esposti, incapaci di sentire davvero. Il suo percorso è quello di chi impara a guardare senza voler possedere, a toccare senza dover dimostrare.
Molte scene sono diventate iconiche: la messa domenicale dopo le notti folli, il confronto con i genitori, la routine in palestra, la solitudine dietro ogni gesto automatico. Ogni inquadratura è costruita con una precisione quasi coreografica, a sottolineare il contrasto fra controllo e vulnerabilità. La regia sceglie la leggerezza, ma il messaggio resta profondo: non si può amare davvero finché non si accetta la propria fragilità. Con il tempo, questo film è diventato un cult. Citato in studi di cinema e in analisi sulle nuove forme di dipendenza, è oggi considerato uno dei primi titoli ad affrontare il tema in questione con sguardo umano e non moralista.
Perché non è solo una storia d’amore. È un viaggio nella mente di un uomo che scopre la differenza tra desiderio e connessione, tra possesso e presenza. E soprattutto, è un film che parla a tutti: a chi si rifugia nei propri schermi, a chi cerca nel virtuale ciò che non trova nel reale, a chi ha paura di mostrarsi imperfetto. Da oggi su Netflix, questo titolo torna a ricordarci che il cinema può ancora dire qualcosa di vero sulle nostre vite. Che dietro la provocazione si nasconde una domanda antica: cosa significa davvero amare? Forse la risposta è tutta in quell’ultimo sguardo, sincero e disarmato, che ancora oggi non smette di colpire chi guarda con il cuore aperto.
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