Steve su Netflix: il film che nessuno aspettava, ma che oggi batte i giganti.
Tra i titoli più visti su Netflix in questi giorni spicca un film che non ha effetti speciali, supereroi o finali rassicuranti. Si chiama Steve, è diretto da Tim Mielants (già regista di alcuni episodi di Peaky Blinders) e ha come protagonista assoluto Cillian Murphy, fresco di Oscar per Oppenheimer. Un progetto piccolo, quasi silenzioso, che però sta sorprendendo tutti: nel mare di kolossal e blockbuster, è proprio questo dramma intimo e spigoloso ad attirare il pubblico.
Disponibile su Netflix dal 3 ottobre, Steve racconta una sola giornata nella vita di un preside britannico, interpretato da Murphy, alle prese con la chiusura imminente del suo istituto per ragazzi problematici. Attorno a lui, studenti tossicodipendenti, educatori disillusi e una troupe televisiva che vuole immortalare la fine di un’epoca. È un film che non cerca l’effetto facile, ma scava. Sottovoce, con ritmo lento e cuore sincero. Il regista sceglie una fotografia fredda, quasi opaca, come se la scuola stessa fosse sospesa nel tempo. Ma dentro quel silenzio si muove una tempesta emotiva: Steve è un uomo distrutto dal sistema, ma incapace di smettere di lottare. Ed è in questo che il film conquista lo spettatore: nella sua vulnerabilità.
Dopo aver incarnato il genio tormentato di Oppenheimer, Murphy qui sveste i panni del mito per indossare quelli dell’uomo comune. La sua interpretazione è calibrata, trattenuta, carica di una stanchezza reale che si legge negli occhi prima ancora che nelle parole. In un cinema sempre più gridato, Steve convince proprio perché sussurra. Molti spettatori hanno paragonato il film a L’attimo fuggente. E il confronto, per quanto azzardato, regge. Entrambi i protagonisti sono educatori che lottano contro un sistema che non li capisce. Entrambi vedono nei giovani qualcosa che la società non vuole più vedere: la possibilità di un riscatto. Ma se Robin Williams in L’attimo fuggente accendeva speranza e poesia, Murphy in Steve porta il peso della disillusione moderna.
Qui non c’è un “Carpe Diem” urlato tra i banchi, ma un silenzio carico di impotenza. Dove Keating ispirava, Steve resiste. Dove L’attimo fuggente celebrava la libertà, Steve mostra la fatica di sopravvivere quando il mondo ti toglie anche quella. Il film è tratto dal romanzo Shy di Max Porter, autore già noto per la sua scrittura frammentata e poetica. Tim Mielants la traduce in immagini asciutte, quasi documentaristiche. Il risultato divide: c’è chi lo considera un capolavoro nascosto e chi lo trova distante, troppo freddo per emozionare davvero. Ma è proprio questa tensione tra empatia e distacco a renderlo potente. In un panorama dominato da titoli iper-prodotti, Steve rappresenta la contro-narrazione: un cinema che torna al senso umano, alla parola, alla fragilità. È l’altra faccia della medaglia di Oppenheimer: meno esplosioni, più silenzi.
Nonostante un’accoglienza iniziale tiepida alla critica, Steve sta scalando le classifiche di Netflix grazie al passaparola. È la dimostrazione che il pubblico riconosce la verità quando la vede, anche se non è confezionata in modo perfetto. C’è qualcosa di profondo nel modo in cui il film parla di educazione, fallimento e dignità. Una storia piccola che sembra gridare: “essere umani non è mai stato così difficile”. E forse è questo il segreto del suo successo: Steve non è un film che intrattiene, è un film che resta.
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