Parthenope, il successo del film che svela e nasconde Napoli. Parla Paolo Sorrentino.
Paolo Sorrentino conosce bene l’arte del mistero. Con Parthenope ha regalato al pubblico un film che vibra di poesia e ambiguità, di visioni nitide e zone d’ombra. Il racconto della giovane donna che porta il nome della sirena fondatrice di Napoli si intreccia con figure più o meno reali, più o meno immaginate, in un universo sospeso tra memoria e invenzione. Tra i personaggi che più hanno fatto discutere c’è il figlio del professor Marotta, interpretato da Alessandro Paniccia: un gigante fragile, un uomo con disabilità descritto come “fatto di acqua e sale”. Sorrentino ha scelto di svelarlo solo nel finale, come se il film dovesse attendere il momento giusto per aprire quella porta segreta. Il professore lo custodisce, lo protegge dal mondo esterno, aspettando che Parthenope sia pronta.

L’incontro tra la protagonista e quell’uomo-bambino diventa una chiave di lettura della storia, il compimento di un percorso di crescita e consapevolezza. Il figlio di Marotta non è soltanto un personaggio: è simbolo, metafora, allegoria. Quando il professore pronuncia la frase “È fatto di acqua e sale”, sembra evocare Napoli stessa, città fragile e inafferrabile, segnata eppure luminosa, che come il mare unisce bellezza e dolore. La risposta di Parthenope, “Come il mare. Come me”, suggella quel legame invisibile che lega i tre: la ragazza, la città e quell’essere enigmatico. La critica ha colto in lui un riflesso della città partenopea, vulnerabile e al tempo stesso resistente, diversa ma vitale, bisognosa di cura. Altri hanno letto quella presenza come l’ultima tappa del viaggio interiore della protagonista, una prova di maturità e di sguardo. Non manca chi ci vede una dichiarazione di amore verso Napoli, incarnata nel suo lato più nascosto e dimenticato. Eppure, come sempre nei film di Sorrentino, nessuna interpretazione è definitiva. Ogni simbolo resta aperto, ogni metafora si presta a più letture.
La risposta definitiva di Paolo Sorrentino a Giffoni
Ho avuto la fortuna di assistere alla conferenza di Paolo Sorrentino al Giffoni Film Festival. La sala era gremita, e l’atmosfera vibrava di curiosità. A un certo punto un ragazzo ha preso il microfono e ha chiesto al regista da dove fosse nata l’ispirazione per una figura tanto “strana” come il figlio del professore “fatto di acqua e sale”. Sorrentino ha sorriso, ha guardato il pubblico e ha lasciato cadere un sonoro “boh”, strappando una risata generale. Poi, con la sua consueta calma, ha aggiunto che in realtà qualcosa di simile lo aveva visto davvero. Non nello stesso identico modo, ma un’immagine, un ricordo, che aveva deciso di trasformare in cinema.
@giusyindiretta La domanda delle domande per Paolo Sorrentino: chi o cosa ha ispirato il figlio del professore Marotta in Parthenope? L’articolo completo con maggiori dettagli su ⬇️ https://larchitetto.it #paolosorrentino #parthenope #filmclips #fyp #viral
Quella frase ha acceso ancora di più il mistero. Perché, come spesso accade con i suoi film, Sorrentino non dice mai tutto. Anzi, lascia allo spettatore il compito di completare il quadro, di colmare i vuoti, di restare sospeso nel dubbio. È una cifra distintiva del suo cinema: mai spiegare fino in fondo, perché nel non detto si nasconde la magia. L’impressione è che quella risposta sia stata volutamente parziale. Come se il regista avesse scelto di alimentare il mito anziché dissiparlo. Ed è forse questo il segreto di Parthenope: un film che più si guarda, più sfugge. Più sembra raccontare, più sembra sottrarre. Ed è proprio lì che risiede il suo fascino.
