È tornato su Netflix il gioiello di Paolo Virzì che nessuno può permettersi di ignorare.
Nel catalogo streaming c’è un titolo che non è solo un film, è una dichiarazione d’amore al cinema italiano. Ovosodo (1997), diretto da Paolo Virzì, non si guarda: si vive. È la pellicola che ha cambiato le regole del gioco, il cult che ha insegnato alla commedia italiana come raccontare la realtà senza filtri, con dolcezza e disincanto. Un capolavoro che ogni generazione dovrebbe vedere almeno una volta, e che oggi torna a brillare come un diamante incastonato tra contenuti troppo spesso dimenticabili.
Diciamolo senza giri di parole: Ovosodo è un film imprescindibile. È il capolavoro che ha consacrato Virzì nel firmamento del cinema d’autore, ed è uno di quei rari esempi in cui la provincia italiana non viene messa in scena, ma vissuta, assaporata, restituita con tutto il suo carico di malinconia, contraddizioni e tenerezza. La storia di Piero Mansani, interpretato da un giovanissimo Edoardo Gabbriellini, attraversa le tappe comuni a milioni di italiani nati tra gli anni Settanta e Ottanta: una scuola che non sa cosa fare di te, famiglie spezzate ma piene d’amore, sogni enormi chiusi in una stanza tappezzata di poster. Virzì ambienta tutto a Livorno, sua città natale, e non si limita a mostrarla: la mette in primo piano, la fa respirare, la trasforma in un personaggio vivo. Il dialetto toscano, le battute fulminanti, le facce vere – spesso di attori non professionisti – fanno il resto.
“Ho un magone come se avessi mangiato un uovo sodo col guscio e tutto”. Basta questa frase per capire il tono del film: ironico, dolente, disarmante. Nessun’altra battuta, negli ultimi trent’anni, è riuscita a descrivere con la stessa semplicità quel senso di disagio esistenziale che accompagna l’adolescenza. Ovosodo riesce nell’impresa quasi impossibile di raccontare il passaggio alla vita adulta senza retorica e senza trucchi, con uno sguardo limpido che oggi suona ancora più raro e prezioso. Alla Mostra del Cinema di Venezia del 1997, il film si è portato a casa il Gran Premio della Giuria. Ma il riconoscimento più duraturo non è quello inciso su una targa: è il culto che Ovosodo ha generato nel tempo. Proiezioni-evento, restauri celebrati, citazioni entrate nel lessico quotidiano, meme che viaggiano sui social senza perdere una briciola della loro forza originale. È un film che invecchia benissimo, anzi: non invecchia proprio.
L’impatto culturale va ben oltre i confini del cinema. Ha ispirato registi, lanciato attori (da Gabbriellini a Claudia Pandolfi), e cambiato il modo in cui si parla di crescita, educazione, classe sociale. Non è mai didascalico, mai banale, eppure dice tutto: sul nostro Paese, su chi siamo stati, su chi stiamo diventando. Nel mare sterminato dell’offerta streaming, dove i titoli vanno e vengono come onde, Ovosodo resta. È uno di quei pochi film che lasciano il segno, che toccano corde profonde senza mai alzare la voce. Un piccolo miracolo italiano che continua a parlare, con una delicatezza e una forza che oggi suonano rivoluzionarie. Chi ama davvero il cinema non può permettersi di lasciarlo lì, tra i titoli in catalogo. Ovosodo va (ri)scoperto, celebrato, custodito. Perché certi film non si limitano a raccontare storie: ti fanno ricordare la tua. E questa è una perla che vale ogni secondo.
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