Ieri ho visto in anteprima il trailer di Le libere donne, la nuova fiction Rai con Lino Guanciale. Un minuto e mezzo. Tanto è bastato per sentire un pugno allo stomaco.
Il volto di Guanciale riempie lo schermo. Lo sguardo è teso, trattenuto. Più intenso che mai, forse anche più del commissario Ricciardi. L’ambientazione è potente: Italia, anni ’40. Ospedali psichiatrici. Uomini in camice bianco. Donne chiuse, recluse, dimenticate. Rai Fiction e Endemol Shine Italy portano sul piccolo schermo un pezzo doloroso della nostra storia. Il regista è Michele Soavi, che firma la trasposizione del romanzo Le libere donne di Magliano di Mario Tobino, edito nel 1953. Guanciale è Tobino. Psichiatra e scrittore. Uomo inquieto. Umano, troppo umano.
Nel trailer, una scena colpisce più delle altre: una donna corre verso il mare. Le sbarre alle spalle. Il vento tra i capelli. Lo sguardo aperto all’orizzonte. È Margherita Lenzi, interpretata da Grace Kicaj. Una giovane ereditiera internata contro la sua volontà. Un personaggio che brucia di fragilità e forza.
“Non puoi provare certi sentimenti per lei”, dice il dottor Anselmi – Fabrizio Biggio – a Tobino. Ma l’amore nasce dove non dovrebbe. E la libertà può essere follia. O viceversa. La fotografia è densa. Gli interni del manicomio, girati a Lucca e in provincia di Siena, restituiscono un’atmosfera opprimente ma vibrante di vita. Nel cast anche Gaia Messerklinger (Paola Levi, staffetta partigiana ed ex amore di Tobino), Paolo Briguglia, Pia Lanciotti, Francesca Cavallin e Luigi Diberti.
Le libere donne arriverà su Rai 1 nella seconda metà del 2025, con sei episodi distribuiti in tre prime serate. Sarà visibile anche su RaiPlay. Ed è praticamente un kolossal, come spiegava la produzione all’Italian Global Series Festival di Rimini e Riccione, per via del numero di comparse anni ’40 e ’50, coinvolte ogni giorno per le riprese.
Mario Tobino ha lavorato quarant’anni nell’ospedale psichiatrico di Maggiano, vicino Lucca. Da quella esperienza nasce un racconto senza filtri. Doloroso. Coraggioso. Lo dice anche Lino Guanciale in un video mandato in onda durante il festival: “Questo progetto è necessario. All’epoca bastava una donna troppo libera, troppo intelligente, per finire reclusa. Spesso per sempre.” Le libere donne non è solo una fiction. È una denuncia. Un atto d’amore. Una riflessione ancora attuale.
Nel manicomio di Magliano (nome fittizio della serie), non tutte sono malate. Alcune sono lì per volere dei mariti. Altre perché non si conformano. Nessuno vuole ascoltarle. La regia non le giudica. Le guarda. Le segue. Le rispetta. E lo spettatore sente il nodo in gola salire scena dopo scena. La corsa al mare, mostrata nel trailer, è un simbolo potente: la follia come unica via di fuga. Il mare come unica via d’uscita.
Oggi, quel passato ci parla ancora. Guanciale lo sa. Lo dice chiaramente: “Dobbiamo avere il coraggio – da maschietti – di dire quante cose sono cambiate. E quante sono rimaste le stesse.” Le libere donne è una serie che scuote, emoziona, interroga. Una di quelle storie che fanno male. Ma servono. Non è fiction per intrattenere. È fiction per ricordare. Per capire. Per cambiare.
Quando andrà in onda, preparatevi. Non sarà semplice guardarla. Ma sarà impossibile dimenticarla. E quella corsa verso il mare resterà con noi. Più vera di tante verità.
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