Un film su Disney+ che parla come Lucio Corsi canta.
Ci sono film che non si guardano: si sognano. E poi c’è Big Fish, quel miracolo firmato Tim Burton che, a vent’anni dalla sua uscita, riesce ancora a commuovere chi è cresciuto a pane e immaginazione. Ma oggi, più che mai, Big Fish sembra parlare una lingua segreta, la stessa che Lucio Corsi ha trasformato in una costellazione musicale fatta di animali parlanti, alieni spaesati e battiti in technicolor. Non serve che il suo nome compaia nei titoli di coda. Questo film è Lucio Corsi. O almeno, lo è nell’anima.

Nel mondo del protagonista Edward Bloom, tutto è troppo grande per restare confinato nella cronaca. Ogni episodio della sua vita diventa un’epopea, ogni incontro un’allegoria. Corsi fa la stessa cosa con la Maremma: la prende, la solleva da terra, e la fa planare tra i raggi gamma e le costellazioni di Saturno. È un’Italia alternativa, dove i dinosauri sorseggiano tè e i sogni si infilano sotto il cuscino, come biglietti scritti da una mano invisibile. Entrambi, Bloom e Corsi, trasformano la realtà in incanto. Ma senza scappare da essa. La celebrano, con quel tipo di amore che riesce a sopravvivere solo se rivestito di assurdo.
Se ti piace Lucio Corsi, guarda Big Fish di Tim Burton e te ne innamorerai
C’è qualcosa di profondamente malinconico, quasi infantile, nelle storie che si raccontano entrambi. Non la malinconia piatta da fine estate, ma quella fatta di lucine intermittenti, di racconti al buio prima di dormire, di gesti che si ricordano anche quando la voce di chi li compiva non c’è più. Corsi canta per ricordare. Bloom racconta per non essere dimenticato. E nel mezzo, un intero mondo che continua a credere che la bellezza sia fatta di dettagli improbabili, di colori troppo saturi, di battute che sembrano rubate a un film anni Sessanta e di abiti che profumano di cinema, quello bello. Non è solo questione di trama. È la pelle del film a essere corsiana. Le inquadrature sognanti, la palette cromatica che oscilla tra il pastello e l’onirico, le musiche che sembrano uscite da un jukebox cosmico.
Big Fish non racconta solo una storia: ti ci fa abitare dentro. E in quel mondo, Lucio Corsi potrebbe camminare tranquillamente accanto a Edward Bloom, entrambi con lo sguardo rivolto altrove, verso un altrove che è più reale del reale. I videoclip di Corsi, da Freccia Bianca a Astronave giradisco sono cortometraggi travestiti da sogni pop. Hanno la stessa energia giocosa, lo stesso modo di giocare con la nostalgia senza farsi mai inghiottire dalla retorica. Guardare Big Fish dopo aver ascoltato Lucio Corsi è come passare da un vinile a una pellicola: cambia il formato, non la sostanza. Chi ha amato almeno una volta la visione di Lucio Corsi troverà in Big Fish non un film, ma un’esperienza emotiva. Qualcosa da riguardare quando il cielo è troppo grigio, quando la realtà morde, o quando si sente il bisogno disperato di credere che ogni vita, anche la più piccola, possa diventare leggenda. Perché, in fondo, non si tratta solo di raccontare una storia. Si tratta di salvare il mondo mentre lo si canta.
