Dalle scene di The Voice al nuovo singolo Le domeniche degli altri: intervista esclusiva a Stefano Colli
Dopo aver conquistato il pubblico nel team di Gigi D’Alessio a The Voice of Italy e aver calcato palcoscenici importanti tra musical, tv e musica d’autore, Stefano Colli torna con un brano che è una carezza malinconica e potente allo stesso tempo. Le domeniche degli altri, disponibile su tutte le piattaforme e anticipato da un videoclip firmato da Riccardo Sarti, segna una nuova tappa nel percorso artistico del cantautore bolognese, che continua a distinguersi per profondità espressiva e sensibilità narrativa.
Frutto della solida collaborazione con Marsali (Rebecca Pecoriello) e con il Maestro Giancarlo Di Maria, il brano si muove su sonorità raffinate e atmosfere sospese, che avvolgono l’ascoltatore in un viaggio nei ricordi più intimi. Già accolto positivamente da importanti testate, questo nuovo singolo è molto più di una canzone: è un invito a rileggere i frammenti della nostra memoria attraverso i gesti e le storie degli altri. Un progetto che conferma Colli come una delle voci più interessanti della nuova scena cantautorale italiana. Lo abbiamo sentito e ci ha parlato dell’esperienza in tv, l’autotune e tanto altro.
The Voice è stata una tappa importante nel tuo percorso. Che ricordo hai di quell’esperienza?
Un’esperienza totalmente inaspettata. Arrivata in un momento in cui stavo iniziando a farmi conoscere attraverso la mia musica, infatti ero reduce da un bel tour promozionale per il singolo Guarda la notte. L’agitazione c’era, così come la paura di non riuscire a gestire al meglio quella situazione, ma alla fine sono riuscito a divertirmi molto e a prendere il meglio da questa opportunità. Il mio unico scopo era quello di fare delle buone esibizioni e spero di esserci riuscito.
Nel Team di Gigi D’Alessio, hai duettato con lui su Caruso. Cosa ti ha lasciato quell’incontro artistico?
Un incontro che non dimenticherò. Gigi si è rivelato da subito una persona sensibile e attenta anche a telecamere spente, e questo non è affatto scontato. Per non parlare poi dell’emozione per il nostro duetto sulle note di Caruso di Lucio Dalla. Lo abbiamo completamente improvvisato, quel momento non era previsto, né programmato. Quando Gigi si è alzato dalla sedia per andare al pianoforte, mi tremavano le gambe. E forse è stato così magico proprio per questo motivo.
Secondo te, The Voice oggi riesce ancora a lanciare talenti autentici o il rischio è quello di consumarli troppo in fretta?
Oggi in Italia vanno in onda solo la versione Senior e Kids. La mia edizione è stata l’ultima del format standard, ed era il 2019. I talent show oggi hanno certamente un ruolo diverso rispetto a anni fa per il mercato discografico, ma credo rimangano un’importante occasione di visibilità, un grande megafono potenziale. Ritengo anche che queste esperienze debbano essere vissute come tappe di un percorso artistico ben più ampio e mai come un fine ultimo o un punto di arrivo. Perché in quel caso, sì che ci sono dei rischi…
Com’è cambiata, secondo te, l’anima dei talent negli ultimi anni?
Oggi, nella maggior parte dei casi (naturalmente non sempre), accedi ad un talent se hai dei buoni numeri sui social o streaming su Spotify. In passato invece la visibilità arrivava più che altro dopo la partecipazione. Secondo me oggi bisogna lavorare di più in una fase iniziale per presentarsi con un progetto già potenzialmente più chiaro, strutturato e delineato. Tra l’altro trovo che, in questo modo, la visibilità data dal talent di turno possa avere un’importanza ancora maggiore. Poi potremmo parlarne per ore, perché chiaramente ogni talent è differente, si rivolge ad un target di pubblico diverso, con meccanismi televisivi diversi, eccetera.
Cosa funziona e cosa invece manca oggi nei meccanismi che regolano i talent?
Forse manca un po’ il coraggio di esplorare nuove strade. Sono decenni che la televisione italiana è bloccata sugli stessi identici format dal punto di vista del mainstream.
Se potessi riformulare un talent a misura d’artista, cosa ci metteresti dentro e cosa toglieresti?
Questa domanda è difficilissima. Credo cercherei di valorizzare maggiormente l’artista nella sua interezza e complessità, per evitare di “etichettarlo” all’interno di un unico genere o collocarlo su uno scaffale predefinito. Cercando di mostrare il più possibile le sue caratteristiche e peculiarità. Il rischio delle televisione è sempre un po’ quello del resto: finisci per collocarti all’interno di un ventaglio molto ampio di proposte dove tu sei chiamato a rappresentare un’identità precisa. Ma l’identità è sempre plurale. Non dobbiamo mai dimenticarcelo, noi in primis.
L’autotune è diventato una costante nel panorama musicale: lo vedi come uno strumento creativo o una scorciatoia per mascherare le carenze?
Io sono profondamente contrario alla facile e ipocrita crociata contro l’autotune. È uno strumento e, come ogni strumento, può essere utilizzato con un fine creativo oppure per altri motivi.
Spetta a noi ascoltatori e fruitori di musica decidere, attraverso lo strumento democratico del libero ascolto. Oggi possiamo scegliere sempre di più cosa ascoltare. Le radio hanno un’influenza diversa su di noi e sul nostro ascolto. Io, per esempio, mi creo le mie playlist su Spotify, mi diverto a scoprire artisti sempre nuovi. Per fare un esempio, un po’ provocatorio (concedetemelo), scelgo di ascoltare Niccolò Fabi e non Tony Effe. Anche se qui diventa poi una questione di gusto personale.
Hai sempre dato grande spazio all’interpretazione e alla verità emotiva: pensi che oggi si dia ancora valore alla voce “nuda” o si preferisce l’effetto?
In questo momento la discografia italiana predilige un sound meno intimo, con una voce posta meno in primo piano, testi meno “impegnati” e riflessivi. Forse perché la realtà che ci circonda ci fa sentire la necessità di evadere, piuttosto che il bisogno di raccontarla per provare a codificarla e comprenderla un po’ meglio. Ma non amo le generalizzazioni e ci sono artisti che seguono un loro percorso ed una loro identità musicale ben al di là della moda del momento. Michele Bravi, artista che stimo moltissimo ha fatto da sempre dell’introspezione, dei contenuti, della sua timbrica inconfondibile e unica, la sua cifra stilistica. Per me la parola è sempre stata il punto di partenza, non riuscirei mai a metterla in secondo piano.
Cosa pensi della figura e del percorso di Lucio Corsi, artista dallo stile così personale e surreale?
Pochi giorni fa, mi è proprio arrivato a casa il suo vinile che avevo pre-acquistato durante la settimana del Festival. Lucio Corsi mi piace moltissimo. Venendo io dal teatro, ho apprezzato tanto anche la sua modalità, che trovo teatrale appunto, di approcciarsi alla performance live e l’esibizione con Topo Gigio nel brano di Domenico Modugno ne è stata una prova evidente.
Ci hanno regalato un momento di musica e spettacolo unico, autentico e poetico. Grazie Lucio.
Le domeniche degli altri è un brano carico di suggestioni intime e universali. C’è un’immagine in particolare, tra quelle evocate, che ti appartiene più delle altre?
Le domeniche degli altri è un brano molto personale che si scontra con tutte quelle emozioni e sensazioni contrastanti che attraversiamo quando siamo costretti a lasciarci alle spalle un legame importante. In questi casi ci troviamo inevitabilmente a riscrivere parte della nostra quotidianità, così come anche delle nostre più piccole abitudini. Una delle immagini che forse più mi emoziona è quella dei piedi freddi con i quali non ci si incontra più la sera prima di addormentarsi o la mattina appena svegli sotto le coperte. Ora piango di nuovo (ride). Ascoltate la canzone per capire meglio a cosa mi riferisco. Mi auguro che chi la ascolta possa riconoscersi, identificarsi e sentirsi raccontato o raccontata. Non esiste regalo più bello per chi condivide la propria musica e le proprie storie.
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