Abitare la montagna, località Donnas, 2018

Proposta per una legge sulla rigenerazione urbana

Diego Zoppi

n.6 novembre/dicembre 2019

Nella stagione del nostro passato recente (seconda metà del XX secolo) le parole d’ordine, sancite dalla ancora vigente legislazione nazionale, erano: organizzazione funzionale efficiente, mobilità efficiente, corretta dotazione di servizi, controllo dei corretti rapporti igienico spaziali e controllo dei meccanismi di rendita fondiaria attraverso parametri e indici.
A questa impostazione concettuale si è aggiunta, all’inizio di questo millennio, la tematica ambientale che ha sovrapposto a quanto già sedimentato (di fatto senza modificarlo) il concetto di riduzione degli inquinanti nelle acque e in atmosfera, e l’idea (connessa al tema della sostenibilità) di riduzione del consumo di suolo. Concetti sacrosanti che tuttavia hanno proseguito il solco dell’urbanistica italiana basata più sul concetto di rigido vincolo che su quello della soluzione condivisa, dinamica, che persegua i giusti obiettivi incanalando energie invece di ostacolarle, cercando soluzioni puntuali invece di porre regole che nella loro necessaria rigidità, allontanano le persone dall’obiettivo comune. Negli stessi anni, l’Onu o la Comunità Europea hanno elaborato approcci agli stessi temi molto più articolati inserendo categorie quali: l’inclusione sociale (che significa, tra l’altro, equità tra centri urbani e aree interne), l’innovazione tecnologica (che significa ridurre la necessità di strutture fisiche se meglio utilizzate le esistenti), innovazione nel mondo degli appalti pubblici (che significa una diversa visione di quello che consideriamo pubblico e quello che usiamo in maniera ‘pubblica’, e quindi con diverse e aumentate risorse economiche disponibili) e altri concetti direttamente legati alla sostenibilità del nostro modello di sviluppo. Il sistema di regole, inerenti le politiche territoriali, è oggi un complesso fardello dove le competenze dello Stato dovrebbero relazionarsi con le competenze regionali – dalla riforma costituzionale del 2001 con la quale è uscita di scena ‘l’Urbanistica’ ed è nato il Governo del territorio con status di ‘materia concorrente tra Stato e Regioni’ – e con quelle rivolte alla tutela dei Beni paesaggistici e monumentali svolte dalle Soprintendenze. Il sistema dei finanziamenti avviene tra Stato e Conferenza delle regioni per quanto riguarda le opere infrastrutturali, tra Comuni e Regioni per quanto attiene ai finanziamenti comunitari.
I trasferimenti diretti dallo Stato agli Enti locali, non avvengono sulla base di progetti organici ma in percentuale sulla dimensione dei comuni e fondamentalmente avviene su assi settoriali divisi a seconda del ministero erogatore. Risultato di questo assetto è che la macchina della gestione del governo del territorio è oggi lenta, settoriale e poco efficace nel centrare le reali aspettative dei cittadini, soprattutto perché i processi sono sempre dall’alto verso il basso con tempi di attuazione lunghi e incerti. L’idea di un percorso che porti a ridurre e poi azzerare il consumo di suolo naturale è ormai ampiamente condivisa ma comporta che la città futura non possa espandersi oltre i limiti attuali e che dovrà trovare dentro la città esistente le occasioni per innovarsi e dare risposta alle nuove esigenze e potenzialità. Lavorare sulla città esistente significa accettare il confronto con la sua complessità nella sua continua variazione temporale. Un confronto reso ancora più difficile dall’attuale congettura in cui le logiche di mercato sono venute meno in gran parte del territorio italiano a causa delle dinamiche demografiche ed economiche e del grande patrimonio immobiliare prodotto nei decenni trascorsi, oggi esuberante rispetto alle esigenze, anche se tipologicamente e qualitativamente non adeguato.
Occorre allora pensare di agire non più con una logica di Piano disegnato e rigido, con tempi di formazione talmente lunghi da risultare incompatibili con i tempi attuali, che mutano sempre più velocemente. Significa che lavorando su una città esistente occorrerà lavorare su situazioni peculiari dove indici, parametri e percentuali di funzioni, difficilmente, riescono a soddisfare vari livelli su cui la trasformazione dovrà articolarsi (livello dovuto alle utenze, alle valenze culturali dei manufatti esistenti, alle tematiche di sostenibilità economica e di quella ambientale, alle relazioni sociali esistenti e a quelle che si vorranno implementare, alla connettività, solo per citare le più ricorrenti). Sarà necessario definire obiettivi, strategie per raggiungerli e progetti quali strumento delle strategie. Tuttavia non potremo pensare di definire già il dove, il come e il quando in sede di formazione degli strumenti di pianificazione generale. Essi saranno necessari e utili se sapranno definire coerenze che accoglieranno tasselli definibili solo in momenti successivi. Nella città nuova come veniva prevista dalla pianificazione, occorreva prevedere le compatibilità tra i singoli ‘oggetti’ componenti, quindi occorreva progettare strade, edifici, scuole, industrie e tutto quello che componeva la città di allora, chiaramente localizzato e identificato nel proponente. In genere l’Ente pubblico si occupava della parte ‘pubblica’, la parte privata si occupava dei ‘contenitori’ residenziali, produttivi o commerciali, contribuendo alla realizzazione della parte pubblica con il sistema degli oneri. Oggi, nella città esistente che deve essere riorganizzata ed evoluta, queste schematizzazioni non sono più possibili. La mixité è un elemento spaziale e temporale.
Le nuove funzioni sfuggono alla chiara identificazione (si pensi alla rivoluzione e-commerce, al fenomeno Airbnb, agli agriturismi, alla diffusione dello smartworking, alla mobilità leggera). La spinta speculativa è spesso flebile o assente in molti territori, pur non mancando le necessità di nuovi assetti. Quello che il governo del territorio deve inserire nel suo vocabolario è ‘creazione di valore’ in senso collettivo, un valore dovuto alla qualità riconosciuta da chi usa la città, così come occorre inserire il concetto di ‘creazione di fiducia’ tra i vari soggetti che partecipano alla trasformazione della città. I temi della rigenerazione urbana non sono raggiungibili con sistemi regolativi rigidi e impositivi. Occorre allora che tutte le componenti della catena della trasformazione (o rigenerazione che dir si voglia), siano alleate, interconnesse e non contrapposte nel raggiungimento di questi scopi.
Questo significa un cambio di ottica della pubblica amministrazione che dalla posizione di controllore della conformità di proposte private rispetto a regole fisse (i parametri urbanistici), deve farsi parte diligente nel valutare la coerenza con strategie chiare e dimostrabili rispetto a interventi condivisi tra pubblico e privato, spesso con capitali misti che, pur finanziando parti diverse devono concorrere al medesimo obiettivo di innalzamento del ‘valore’ di quel pezzo di città. Gli operatori privati da parte loro, dovranno abbandonare la logica predatoria che ha caratterizzato tanta parte delle operazioni immobiliari dal dopoguerra in poi e accettare percorsi più lenti, più complessi, condivisi con una platea più vasta, ma proprio per questo più robusti nell’iter e forse meno sensibili alle oscillazioni del mercato. La rigenerazione urbana rappresenta un cambio importante nel nostro approccio alla città perché invece di focalizzare l’importanza sul singolo oggetto da trasformare, si focalizza sul dare e trarre importanza da un’infrastruttura urbana di dimensioni sufficientemente ampie per garantire un miglioramento qualitativo dell’intero sito, oggetto della trasformazione. Affinché questo avvenga, sono necessarie regole che permettano un’organizzazione generale della trasformazione con mezzi adeguati, percorsi decisionali coerenti, progettualità adeguata, strumenti finanziari innovativi.
Saranno tuttavia ancor più necessarie nuove professionalità nelle pubbliche amministrazioni (facilitatori di processi, economisti, tecnici che sappiano affrontare le tematiche in modo complessivo e non per semplici ‘assi’), saranno necessarie nuove forme di partenariato pubblicoprivato o pubblico-pubblico, saranno necessarie nuove forme di progettualità su scala urbana e architettonica che sappiano includere negli interventi progettati una vera sostenibilità ambientale e sociale, sappiano cioè connettere il bene pubblico al bene privato.
La macchina pubblica ha oggi grande difficoltà a coordinare i propri Piani di investimento e sviluppo e ha ancora maggiori difficoltà ad allocare in maniera efficace e rapida le risorse (non solo per la carenza di queste, ma per la difficoltà di passare dal livello centrale a quello periferico) con coerenza di scopo e in coerenza tra le diverse amministrazioni, anche dello stesso livello.

Diego Zoppi
Diego Zoppi
Nato a La Spezia nel 1960, si laurea nel 1987. Eletto Consigliere nell’Ordine degli Architetti di Genova nel 2005, ne ricopre la carica di Presidente dal 2015.
Abitare la montagna, località Donnas, 2018
Abitare la montagna, località Donnas, 2018