
La città pubblica come bene comune
Marisa Fantin
n.6 novembre/dicembre 2019
Durante il percorso ricco di confronti, discussioni, seminari di approfondimento, prove tecniche di scrittura che ha accompagnato la riflessione sul futuro della città, sulla necessità di una nuova legge urbanistica e di un nuovo modello di progettazione, a lungo ci siamo interrogati sul significato che la città debba assumere.
Ci siamo convinti che essa debba procedere sempre in stretto affiancamento con il concetto di ‘bene comune’, un passo importante perché comporta innanzitutto l’estensione del termine città ai territori che ne sono parte integrante, non separabile; ci rende consapevoli che la città è da intendersi come formazione sociale, luogo di vita delle comunità che devono essere considerate come centro del progetto; infine, che la città è pubblica per definizione e in tutte le sue parti.
Non sarà un caso se gli strumenti urbanistici che sono deputati alla pianificazione della città e del territorio sono strumenti di iniziativa pubblica nei quali la componente di discussione e condivisione è sia all’interno delle strutture istituzionali alle quali è affidata l’approvazione formale, sia rivolta alla società alla quale è chiesto di esprimere le necessità e condividere le scelte. Tante volte abbiamo sottolineato la mancanza di visione, di strategia, come la principale causa di una pianificazione poco efficace; questo non perché il privato manchi di proposte o di creatività, ma perché senza una regia pubblica non si disegna la città.
Non è il mercato a dettare le leggi, è la comprensione delle leggi di mercato, la capacità di fare in modo che in esse convivano interessi diversi, la competenza per trovare la risposta politica e tecnica che consente di scegliere, stabilire priorità, prendere decisioni. La città è pubblica perché diversamente non potrebbe funzionare, non potrebbe dare risposta alle tematiche del vivere quotidiano in tutte le sue articolazioni; alle questioni ambientali che oggi sono al centro del dibattito; non potrebbe avviare quelle operazioni di rigenerazione che noi intendiamo ben più complesse rispetto alla sostituzione dell’edilizia energivora e che è invece legata alla costruzione di nuove forme di coesione sociale, queste davvero rigenerative.
C’è anche un altro significato, che attribuiamo in campo urbanistico ed edilizio al concetto di città pubblica, ed è quello legato alla tematica degli standard e all’applicazione del noto DM 1444/1968. Senza ripercorrere le ragioni del Decreto, il contesto nel quale è stato concepito e gli esiti positivi e negativi che ha prodotto, l’evoluzione dell’organizzazione dei sistemi urbani, i temi che essi pongono alla pianificazione, il diverso uso delle risorse, la composizione mutata della popolazione e il cambiamento delle abitudini hanno reso i contenuti del Decreto inadatti e insufficienti a garantire lo standard di qualità del tessuto edificato che era uno dei suoi principali obiettivi.
A lungo si è detto dell’insufficienza dei parametri quantitativi nel definire il livello dei servizi pubblici e della necessità di introdurre parametri di tipo prestazionale maggiormente aderenti ai cambiamenti demografici, ai modi d’uso di spazi e strutture, alle funzioni ai quali essi devono assolvere. Se ancora ci fossero dubbi sulla necessità di modificare il modello previsionale dei servizi pubblici in modo che siano realmente capaci di garantire alla società almeno i requisiti minimi di qualità della vita, il test al quale stiamo sottoponendo le nostre città mette in luce come i modelli di vita cambino anche in tempi brevi e come la progettazione urbanistica non possa essere prefigurazione di un tempo ideale nel quale tutte le previsioni, pubbliche e private, si attuano, ma gestione nel tempo del cambiamento.
Questo concetto è connaturato al progetto di pianificazione fin dal suo definirsi, cioè già nella capacità di leggere e interpretare la domanda che la città pone, le ragioni per le quali si intraprende la redazione di un piano.
Il fabbisogno, concetto ben presente nel processo di pianificazione, è costituito dalla domanda espressa dalla collettività non ancora soddisfatta o generata dal progetto di Piano, non è solo una conseguenza, è una scelta progettuale connessa all’idea che si intende promuovere. Allo stesso modo le dotazioni territoriali non saranno la conseguenza del volume edificabile, ma la matrice del progetto: la misura delle trasformazioni è la capacità della città pubblica di contenerle mantenendo la soglia di qualità che ci siamo prefissati. Semmai una formula matematica fosse sufficiente garanzia di qualità, e sappiamo bene che non è così, essa non potrà essere una divisione che identifica un abitante con una quota di metri cubi destinati a residenza seguita da una moltiplicazione per ottenere la superficie da destinare a scuola, verde, parcheggio.
Magari potrebbe venirci in aiuto il concetto di ‘insieme’ che sembra rispondere meglio al meccanismo complesso e composito di elementi che caratterizzano città e territori e alla necessità di costruire equilibri, verificare differenze e rivalutare quel concetto di ‘bene comune’ che è il vero senso della città pubblica.
