Esteri
arch. Giuseppe Cappochin
Gli architetti italiani sono molto apprezzati all’estero, più di quanto immaginiamo, soprattutto in settori quali la conservazione e il restauro, la rigenerazione urbana sostenibile, gli edifici e i quartieri smart, l’interior design e l’arredamento, questo anche grazie ai successi del design e del talento di imprese e artigiani italiani. Chi si affida a noi pensa alle tre F, Furniture, Fashion e Food, pensa ai produttori delle auto di lusso, ai nostri centri storici, alla qualità delle finiture, al gusto, alle immagini che esportiamo, in una parola: all’Italian Lifestyle. Queste le nostre carte vincenti. Quali invece i punti critici? Prima di tutto la piccolezza degli Studi, con la mancanza d’interdisciplinarietà, la modestia dei fatturati e la scarsità di realizzazioni rispetto alla dimensione dell’offerta dei mercati in espansione; ma anche l’insufficiente imprenditorialità dei professionisti. Il modello prevalente nei paesi emergenti guarda alle società di progettazione anglo-americane, ai cui standard si sono conformati Giappone, Singapore e Corea del Sud prima, Cina, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait ed Emirati poi. Se si scorrono le classifiche dei maggiori Studi in termini di fatturato e di personale, ai primi posti appaiono colossi che assomigliano poco al nostro modo d’intendere il mestiere: multinazionali quotate in borsa, con filiali in tutto il mondo e migliaia di addetti fra partner, associati, dipendenti e consulenti, che offrono tutti i servizi, dal concept iniziale al facility management, cioè ai piani di gestione e manutenzione, con livelli di sviluppo progettuale molto alti. Competere non è facile: riusciremo ad adeguarci a modelli a noi così poco congeniali? È la maggiore sfida posta oggi a noi italiani (non sarà inoltre facile competere con i fenomeni di ‘uberizzazione’ che si stanno delineando nelle forme più diverse, da Houzz a Cocontest, ad Amazon Home Services.) La risposta è nella nostra capacità d’innovare: riusciremo a creare reti di Studi connessi, interdisciplinari e flessibili che, nonostante la deregulation in atto, siano al tempo stesso in grado di garantire qualità progettuale e coniugare la digitalizzazione con la fisicità del cantiere? Quel che è certo è che chi vorrà lavorare all’estero dovrà crescere, investire e innovare. L’obiettivo del Dipartimento Esteri non è dunque facile: passa attraverso un processo di maturazione cui cerchiamo, con molta modestia, di contribuire attraverso eventi formativi presso ordini, consulte e federazioni. Sarebbe sbagliato pensare che tutti debbano provare a lavorare all’estero: oltre a richiedere, come s’è visto, strutture adeguate, potrebbe riservare rischi difficili da sostenere. Immaginando che i grandi Studi italiani non abbiano bisogno d’aiuto e che quelli piccoli non siano interessati a un passo così impegnativo, il Dipartimento si rivolge piuttosto agli Studi di medie dimensioni abbastanza competitivi da desiderare di allargare il proprio campo d’azione. Lo si può fare in almeno tre modi: trasferendosi e cercando un impiego all’interno di uno studio locale – opzione più interessante di quanto si possa immaginare, soprattutto per i giovani: non necessariamente si finisce a fare i disegnatori ed è meglio misurarsi con progetti di livello internazionale, ancorché non da titolari, che non restare a casa ad aspettare –; aprendo una filiale del proprio Studio, soluzione obbligata per chi desidera, per esempio, lavorare in Cina, e comunque richiesta in alcuni paesi mediorientali; lavorando dal proprio Studio in Italia, in collaborazione con un local architect, limitandosi a frequenti trasferte. Va poi detto che un conto è andare in Europa o in Canada (da poco equiparato alla UE), dove i titoli sono riconosciuti, e un conto in paesi con sistemi diversi. Se la sostanza rimane più o meno la stessa, contratti, pagamenti, assicurazioni, titoli e competenze cambiano. Come possiamo dare una mano? Facendo conoscere le nostre eccellenze; favorendo la crescita degli Studi e la loro propensione all’innovazione perché risultino più competitivi; promuovendo gli scambi di giovani professionisti; attivando le relazioni in grado di garantire successo ai nostri progettisti all’estero; offrendo assistenza e consulenza a chi già vi opera o intende farlo. Ma anche contribuendo a quel lavoro di maturazione e innovazione cui s’è accennato: in molti paesi, per esempio, il BIM e altri standard internazionali vengono dati per scontati. Dov’è meglio andare? Dovunque ci sia attività edilizia: nei paesi in via di sviluppo, dal Medio Oriente alla Cina al continente africano; non da soli, ma in sinergia con le imprese e l’intero sistema produttivo Made in Italy e in collaborazione con la rete diplomatica, gli Istituti Italiani di Cultura e con l’ICE-ITA, Italian Trade Agency, l’agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane del ministero dello Sviluppo Economico, con la quale è attivo un protocollo d’intesa (con sconti per chi se ne avvale). Dobbiamo poi agevolare l’accesso al credito, con SIMEST, SACE e Cassa Depositi e Prestiti e coordinarci con il Consiglio Nazionale degli Ingegneri, Fondazione Inarcassa, ANCE, Federlegno e altre associazioni di categoria. Nell’ultimo paio d’anni, quasi sempre con l’ICE-ITA, abbiamo organizzato missioni e incontri B2B, per chi ne ha fatto richiesta, in Qatar; in Cina a Tianjin, Chongqing, Shanghai, Suzhou e Hong Kong; nell’Est europeo, a Zagabria, Sarajevo e Mostar; negli Stati Uniti, a Chicago; in Corea del Sud, a Seoul; nelle ex repubbliche sovietiche come Azerbaijan e Georgia; in Marocco. In collaborazione con il dipartimento Cultura, le missioni sono sempre accompagnate dalle nostre mostre istituzionali: Premio Architetto italiano, Giovane talento dell’Architettura italiana e Città d’Italia. Alcune si sono ripetute nel tempo, altre sono diventate un appuntamento fisso. Chi frequenta il nostro sito ne è a conoscenza. Abbiamo inoltre lavorato per far crescere i rapporti del CNAPPC con il Consiglio degli Architetti d’Europa e l’Unione Internazionale degli Architetti e anche con l’UNESCO e l’UMAR: relazioni utili, che ci consentono di conoscere ciò che fanno gli altri e non ripeterne gli errori.
Il Dipartimento a messo infine online una guida, che speriamo possa essere continuamente aggiornata, per orientare l’internazionalizzazione degli iscritti.