Gian Lorenzo Bernini

Verso una nuova architettura

n.6 novembre/dicembre 2019

Chantelou racconta come Bernini esegue i disegni “M. Colbert gli ha parlato della piazza davanti al Louvre. Allora il Cavaliere ha afferrato un pezzo di carbone e l’ha disegnata sul pavimento; preso il suo compasso, marcata una distanza pari ad una volta e mezzo l’altezza della facciata, ha affermato che quella distanza era sufficiente per vederla perfettamente e che la piazza avrebbe avuto molte tese in più. Inoltre, poiché la chiesa di Saint-Germain [l’Auxerrois] si trovava da un lato, ciò dava la possibilità di realizzare una grande strada di dieci o dodici tese proprio di fronte all’entrata principale del Louvre, dalla quale ci si sarebbe potuti allontanare a volontà per vedere la facciata. Ha segnato, quindi, due archi di cerchio per delineare i lati della piazza”

Paul Fréart de Chantelou

Considerare l’architettura un fatto eminentemente collettivo non è oggi solo un’opzione, ma una necessità, una presa di posizione chiara e precisa sulla quale rifondare la nostra disciplina. Una di quelle azioni semplici e a portata di mano, capace però, se realizzata, di rivoluzionare completamente il mestiere dell’architetto, così come si è venuto a configurare negli ultimi decenni.
Dicevamo un’azione semplice, e difatti lo è, si tratta di sostenere e condividere il senso e il significato di un lavoro come quello dell’architetto a partire da un’affermazione che lo collochi in maniera stabile e senza equivoci in un campo preciso: quello collettivo, e lo allontani per contro da quello solo personale in cui era finito.
Ci si obietterà: ma come mai se quest’azione è così semplice da fare non è stata ancora fatta? La risposta è facile da dare ed è vero che l’azione che proponiamo è semplice, ma allo stesso tempo, affinché possa essere efficace, c’è bisogno che essa stessa diventi una esigenza comune, un sentire condiviso, il bisogno di tanti e non soltanto di qualcuno. In altre occasioni, riferendoci alle condizioni del mondo attuale, abbiamo parlato di una nuova intelligenza collettiva che da più parti ormai comincia a farsi strada nel mondo, compreso il nostro Paese; essa chiede di essere ascoltata, soprattutto sulle questioni dell’abitare, esprimendo stati d’animo e intenzioni di carattere sempre più collettivo ed è proprio di questo allora che bisogna tener conto. Questo nuovo sentire crea finalmente le condizioni necessarie per riportare l’architettura nel campo che le è proprio, quello del bene comune, sottraendola così a sentimenti e preferenze personali.
L’inarrestabile proliferare dei linguaggi architettonici del tempo attuale, salutato al suo apparire come un segno di vitalità e di forza della nostra disciplina, si è invece rivelato molto presto come il sintomo tangibile ed evidente di un malessere che pian piano ha completamente snaturato il senso di questo mestiere, spingendo ognuno, per proprio conto, a fare quello che voleva.
La rincorsa a cercare una libertà creativa personale su cui basare il proprio lavoro è stata la rassicurante chimera dietro la quale in tanti hanno creduto di farla franca e i disastrosi risultati che tutto questo ha provocato sono oggi i tristi e malinconici testimoni dell’alto costo pagato dalle comunità per questa sciagurata condotta.
L’architetto ha trovato sempre più difficoltà a far comprendere il senso del proprio lavoro, che a questo punto è stato relegato a ruoli di secondo piano: un lavoro necessario non alla costruzione del bene comune, ma al contrario utilizzato il più delle volte come decorazione estetica per aumentare il valore dell’opera, come azione di marketing da far valere sul mercato immobiliare. Tutto questo è oggi talmente vero che non si riesce più neanche a rispondere alla più semplice delle domande: a cosa serve l’architettura?
Se ora però noi spostiamo la nostra attenzione dalla generica figura dell’architetto e del proprio mestiere, ai singoli architetti – uno per uno – e al loro lavoro quotidiano, ci troviamo di fronte a un’inaspettata e gradevole sorpresa. Infatti, da qualche tempo, questa precipitosa e inarrestabile caduta negli inferi della disciplina architettonica nei confronti della società civile, ha cominciato a trovare delle sacche di vera e propria resistenza da parte delle nuove generazioni, che non si arrendono e non si rassegnano a questa situazione, apparentemente ineluttabile. Il disincanto di non avere più una disciplina forte e riconosciuta da condividere e a cui fare riferimento, ha provocato anche le reazioni positive di chi si ostina a portare avanti questo lavoro, rifacendosi, nonostante tutto, ai sani principi che nel corso dei secoli lo hanno sostenuto e alimentato, e che possono quindi ancora farlo. Oggi assistiamo da parte di queste nuove generazioni a una sorta di ritorno alla disciplina, un ritorno praticato ancora caso per caso, non organizzato e che avanza solo grazie all’evidenza di quel poco che si riesce a fare, ma con la speranza che una nuova strada si stia finalmente aprendo per l’architettura italiana.
Proprio la nostra rivista ha potuto, numero dopo numero, raccontare alcune di queste storie e verificarne la qualità, la maturità, la tenacia, l’appropriatezza, ma anche misurare l’aspirazione e l’ambizione di lavori che cercano di andare oltre loro stessi, perseguendo di nuovo una linea di ricerca e di condivisione che riporti l’architettura nel proprio campo di elezione: quello di essere principalmente un’attività di tipo collettivo. Questo chiaramente ci fa ben sperare e, imparando dal passato, ci incita a non ripetere gli errori commessi, spingendoci per contro a cercare nuove strade. Torniamo allora a quanto detto all’inizio di queste note: considerare l’architettura un fatto collettivo. Ecco, crediamo fermamente che questa sia la questione; dar senso a queste parole diventa allora il nostro imperativo. È questo il momento di cambiare passo, di porre di nuovo al nostro lavoro obiettivi ambiziosi e questa volta finalmente a portata di mano. Momenti come questo attuale ne abbiamo già avuti nel nostro recente passato e abbiamo visto ad esempio come il grande portato teorico della Tendenza – sostenuto solo dal grande impegno degli architetti che quel movimento avevano promosso – sia fallito proprio per non essere riuscito a ottenere quell’aiuto e quel supporto da parte delle istituzioni e della collettività, le sole che avrebbero potuto sostenere obiettivi così alti, altrimenti impossibili da raggiungere.
Questa volta non vogliamo e non possiamo cadere nello stesso errore, non vogliamo rimanere da soli a difendere e sostenere l’architettura; non facciamo architettura per noi, anzi come architetti possiamo pensare e costruire architettura solo se c’è consapevolezza di cosa essa sia. È questa la principale questione che dobbiamo affrontare oggi e alla quale rispondere prima che sia troppo tardi. Ora, a dire il vero, siamo stati in tanti in questi ultimi anni a porci questo problema, a interrogarci sulla perdita di significato dell’architettura e sulla necessità di portare di nuovo in primo piano la funzione conoscitiva di questo mestiere, e per farlo è subito risultato evidente che il vero obiettivo da perseguire era quello di una rifondazione dell’architettura su basi collettive, una rifondazione capace di riannodare quel rapporto fra architettura e società civile oggi così inesorabilmente perduto.
Se guardiamo adesso a quanto è stato messo in atto per raggiungere gli obiettivi posti, ci accorgiamo che il principale sforzo fatto dagli architetti è stato quello di uscire dagli ambiti disciplinari dell’architettura per cercare altrove soluzioni ai loro problemi, piuttosto che cercare, attraverso l’architettura, un coinvolgimento collettivo e popolare, una partecipazione allargata e consapevole alle decisioni che sono proprie dell’architettura.
In questa maniera si sono moltiplicati i contributi richiesti e dati all’architettura dalla sociologia, dall’economia, dalla giurisprudenza e anche più in generale dalla cultura: contributi il più delle volte di ottima qualità, ma che, anziché essere utili all’architetto, hanno portato ancora più confusione nella sua pratica progettuale. Il risultato di tutto questo è quello di avere oggi una mole impressionante di lavori e di ricerche provenienti da vari ambiti disciplinari, appositamente realizzati per l’architettura, ma che l’architetto non riesce a utilizzare. Oggi però, resistendo alle chimere di un forte immobilismo culturale e di una diffusa accademia bigotta e reazionaria, sono sempre di più i giovani architetti italiani che hanno imboccato di nuovo la strada dell’architettura; lo hanno fatto e lo stanno facendo senza clamore, lavorando ognuno per proprio conto, sulle occasioni che hanno, piccole o grandi che siano, senza indietreggiare di un passo, convinti che quella fosse la strada giusta su cui incamminarsi. Ebbene, hanno ragione loro, quella è la strada giusta, difficile da percorrere ma indispensabile, necessaria e inevitabile per riprendere un discorso di progresso per l’architettura.
Fino a qui niente di nuovo, è normale che prima o poi l’architettura tornasse all’architettura, ma la novità è che questo accade oggi, in un mondo che sembra aver perso completamente la bussola e che, in balia di poteri e forze spaventose, potrebbe avviarsi verso l’estinzione. Queste condizioni estreme hanno risvegliato nuove coscienze planetarie, hanno generato nuovi sentimenti di resistenza e rinnovate volontà di partecipazione, che stanno determinando quella che abbiamo definito una nuova ‘intelligenza collettiva’, promossa dalle nuove generazioni e a mano a mano diventata sempre più trasversale, non solo appannaggio loro, ma condivisa da tanti, dai giovanissimi fino agli adulti. È questa un’occasione imperdibile anche per gli architetti, perché è proprio questo sentimento comune, che esige di prendersi cura della Terra su cui viviamo, a offrirci la possibilità di dare di nuovo significato al nostro mestiere, riportandolo nel campo collettivo che gli è proprio e da cui è stato, per troppo tempo, violentemente strappato. Per farlo basta portare la buona architettura, così com’è, all’interno di un campo condiviso che possa sostenerla, un campo che la consideri sempre e comunque un fatto collettivo, anzi per meglio dire, che è costretta a esserlo, pena la sua decadenza, come ci ammonisce precisamente José Ortega y Gasset.
Quello che proponiamo e che immediatamente abbiamo la possibilità di realizzare è una presa di posizione, netta e precisa, sull’essenza dell’architettura intesa come fatto collettivo e se oggi i primi a condividere questa scelta, a farla propria, saranno dei bravi architetti, capaci di fare gli architetti, vorrà dire per l’architettura italiana riprendere una strada di progresso. Sarà allora proprio quell’intelligenza collettiva che abbiamo evocato a coniugare le esigenze di partecipazione della società civile – di nuovo consapevole del ruolo dell’architettura per un abitare migliore e adeguato al nostro tempo – con le aspettative degli architetti, in grado di offrire con il loro mestiere una reale alternativa allo stato delle cose e dire, in termini di architettura, cosa è possibile fare oggi.

Gian Lorenzo Bernini