
Verso una cultura architettonica per l’europa
Testo di Hans Kollhoff
n.2 settembre/ottobre 2018
Con uno sguardo critico sul ruolo e sul destino dell’architettura Kollhoff delinea una prospettiva risolutiva e intrisa di speranza mirata a ridare dignitas al mestiere dell’architetto che assume come valore cardine il legame con la tradizione e sceglie come fine il costruire in continuità con la cultura materiale preesistente.
Il ‘futuro’ è diventato uno slogan del marketing a servizio di una politica dubbia e dello sfruttamento della qualità della vita nelle città europee ad opera di un consumo di massa spudorato.
Del ‘futuro’ e del ‘progresso’ ne approfitta da sempre solo il capitale morto, mentre i paesaggi, i villaggi e le città vengono svenduti insieme alla loro cultura e alla vita dei loro abitanti. La banalizzazione dell’ambiente e il conseguente abbrutimento dei costumi sociali stanno raggiungendo ai nostri giorni una dimensione tale da mettere a tacere ogni pomposo dibattito sull’architettura e sull’urbanistica, se non fosse che proprio gli architetti sono attori e piloti in questo gioco indegno. In questo contesto, mettersi in bocca la parola futuro è tendenzioso e irresponsabile. Il ‘futuro’ è contaminato.
Mi permetto di parlare di qualcosa che in Italia oggi non è concesso fare, ovvero del Weiterbauen: costruire in continuità con la materia tramandataci dai centri storici. Ciò significa ampliare, elevare, ristrutturare e qualche volta anche demolire e costruire nuovamente, a condizione che il nuovo si inserisca nel contesto storico senza esserne inferiore nella qualità. Fino ai primi anni Sessanta in Italia era ancora possibile farlo; da quel momento in poi però iniziò ad affermarsi, anche nei centri storici, un’architettura che inizialmente si vedeva nelle periferie e solo sporadicamente appariva in centro, l’architettura di quel Moderno che voleva celebrare il rivoluzionario, ponendosi in antitesi all’architettura tradizionale. Le persone comuni in Italia percepivano questa architettura come estranea, come nemica della loro cultura e come distruttrice della città. Per questo da allora si affermò la Soprintendenza, che iniziò a vietare nei centri storici ciò che da sempre è accaduto in modo del tutto naturale nel corso dei secoli: edificare in continuità con la struttura storica preesistente.
Da allora i meravigliosi centri delle città italiane non sono più stati rovinati dall’architettura moderna, ed è giusto che sia così. Sono stati però trasformati nei più grandi musei del mondo dai quali, passo dopo passo, la vita normale si ritrae lasciandosi sopraffare dal predominante turismo globalizzato. Questo turismo, che peraltro sembra essere l’unico fondamento economico delle vecchie città, funzionerà bene fin quando si estinguerà la vita autentica che appartiene alla struttura urbana e alla sua architettura. A questo punto sono arrivati oggi i centri storici italiani, con in testa Roma: si conserva ciò che è redditizio per il turismo scacciando gli abitanti, i lavoratori e infine anche i turisti; quello che rimane è un centro commerciale. Laddove l’antica materia della città non appare redditizia attecchisce l’impoverimento e con esso il decadimento della struttura della città tramandata.
Vista in questo modo la Soprintendenza è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Ecco perché dovrà cambiare la sua filosofia, una filosofia anacronistica che appartiene alla miseria del Moderno, alla miseria di sentirsi al di sopra del vecchio e del comprovato, in ogni senso. Oggi si aggiunge il fatto che la tendenza modernista, divenuta globale, è degenerata in un volgare strumento di marketing e niente più, non avendo nulla a che vedere con gli ideali del Moderno e meno ancora con una seria progettazione urbana o con un’architettura autorevole.
La sfida per noi architetti oggi sarebbe la seguente: dare vita a correnti contemporanee, ancora definibili come architettura; dare inizio niente meno che a un rinnovamento dell’architettura, a un rinascimento che si pone in continuità con la tradizione non come sua mera ripetizione, ma come costruzione che continua a estendere il repertorio tramandato e consolidato. E questo rinascimento non potrà fare altro che seguire un principio tettonico. La Soprintendenza dovrà pertanto allontanarsi dal suo assurdo assunto che il nuovo debba costantemente porsi in contrasto con il vecchio, sotto le false spoglie di una tendenza attuale. Se poi questo rinascimento dell’architettura attingesse al repertorio del nostro mestiere e se noi architetti tornassimo a essere in grado di costruire a un livello elevato, non ci sarebbe più motivo da parte della Soprintendenza di vietarci l’accesso ai centri storici. Necessario sarà non disfarsi della Soprintendenza ma aprire con essa un dibattito architettonico competente, lasciando da parte l’accanimento amministrativo di un’ideologia anacronistica: non le si può più tollerare il privilegio dello Stato nello Stato che a volte confina con l’intangibilità divina. Vi è bisogno di un discorso pubblico liberatorio in grado di ridimensionare gli apparati burocratici e lo snobismo sociale, lasciando anche spazio a generazioni più giovani.
Ciò che manca è un’autorità competente e incorruttibile che affianchi la Soprintendenza in qualità di mediatore tra la memoria collettiva e gli impulsi individuali, nell’interesse delle nuove opere da costruire, che in ogni loro aspetto devono misurarsi con la sostanza storica assumendosi una responsabilità sociale. In questo modo il nostro mestiere sarebbe di nuovo richiesto, e l’architettura, in senso originario, ancora possibile. Solo così l’architettura avrebbe un futuro in Europa. Sarebbe certo rischioso. Tuttavia perché un paese come l’Italia, sulla base del suo patrimonio e della sua esperienza storica, non dovrebbe essere abbastanza sicuro di sé e proseguire in linea con la tradizione, costruendo in continuità con la città storica, anziché temere le forze distruttive dell’ignoranza, della stupidità e della ricerca del profitto? La Soprintendenza deve affrontare il dibattito, non può più nascondersi dietro un connubio di nepotismo e ideologia del restauro. L’Europa non dovrebbe avere paura, ha detto recentemente il presidente francese Emmanuel Macron. L’Europa è basata su dibattiti democratici, su una cultura comune di libero scambio di opinioni, sull’idea del sublime e del bello. Questi non sono valori solo per gli intellettuali. Da troppo tempo non si sentono dai politici tedeschi discorsi di questo genere. Sarei sorpreso, tuttavia, se i politici italiani, rappresentanti della nostra cultura romano-europea, non fossero d’accordo con Macron.
Per noi architetti ci sarebbe nuovamente qualcosa da fare nelle vecchie città, dalla cui architettura potremmo ancora imparare qualcosa di nuovo per il nostro mestiere, ritrovando la gioia nel lavorare, di nuovo orgogliosi di ciò che si è riusciti a fare. Non saremmo più condannati a occuparci dell’assurdità della periferia, che ci tormenterà ancora in futuro con la sua forma globalizzata che porta con sé conseguenze devastanti per la convivenza umana.
Nessun Paese come l’Italia ha il potenziale di prendere posizione in modo consapevole rispetto alla globalizzazione restando al tempo stesso fedele alla propria cultura. Quindi non come Milano che, prona al capitalismo americano, ha accettato di erigere quartieri che potrebbero trovarsi anche in Cina o ad Abu Dhabi.
Dovremmo stare attenti a non scimmiottare il modello americano. Abbiamo bisogno in Europa di una politica basata sulla cultura e guidata dalla viva cultura piuttosto che da un piano economico-finanziario. Così in architettura abbiamo bisogno di una dinamica che venga dalla tradizione, dalla materia architettonica dei centri storici che rende possibile questa cultura viva essendone il simbolo presente. Per quale ragione oggi non dovrebbe essere possibile ciò che è riuscito in modo encomiabile a Firenze, attorno a Ponte Vecchio, dopo la distruzione della guerra, ovvero un radicale cambiamento di paradigma: da una concezione mostruosa di modernizzazione a una relazione sensibile con il patrimonio tramandato, verso una nuova architettura che tiene in considerazione la preesistenza, lo spazio della strada e la materialità tradizionale. In questo modo sono sorti quartieri che il turista non riesce a distinguere da quelli medioevali e perfino noi architetti dobbiamo impegnarci per riconoscere dove sia il punto di rottura tra il vecchio e il nuovo. Solo poco per volta, da un’attenta osservazione, notiamo i balconi, le finestre orizzontali e poi il cemento a vista, la cui superficie è stata martellata e per questo oggi ha una patina così bella. Sì, proprio in questo cauto riavvicinamento all’artigianato tradizionale si scopre il fascino della grande opera della ricostruzione postbellica fiorentina, nonostante l’architetto modernista possa ancor oggi essere incline a storcere il naso. Se venendo da Palazzo Pitti guardiamo verso il lato nord del Lungarno e tra gli Uffizi e il Palazzo di Ferragamo, osserviamo il fronte vivace e articolato, composto dal susseguirsi di edifici vecchi, ristrutturati, ricostruiti, accostati in una giocosa complessità senza eguali, e allora possiamo evincere che la storia e la modernità non devono necessariamente stare l’una innanzi all’altra in modo contrastante, o persino ostile.
Un meraviglioso esempio ce lo ha lasciato Michelucci. I suoi primi schizzi riguardanti la ricostruzione postbellica mostravano delle megastrutture marziane, case con terrazzamenti che fluttuavano su un’autostrada costeggiante il Lungarno, proprio come nell’East River a Manhattan. Due anni dopo Michelucci costruisce un notevole edificio all’angolo di un isolato in via de’ Guicciardini e non lontano da questo, un modesto ma grandioso piccolo edificio che torno a osservare ogni volta che sono a Firenze, perché ancora non ne ho trovato la chiave di lettura: la sua presenza ha qualcosa di giapponese pur inserendosi allo stesso tempo in modo coerente in questo straordinario contesto.
Noi europei, e soprattutto voi italiani, con la vostra meravigliosa cultura, che fino a oggi si è armonizzata con l’ideale ammirevole di una vita sociale condivisa che si manifesta non da ultimo nell’architettura dei centri storici, avete ben altro da contrapporre alla globalizzazione sfrenata e tutto il diritto, anzi, il dovere, di essere un esempio per il mondo.
Io amo questa terra e i suoi abitanti, le sue città, i suoi edifici. Desidererei molto poter riprogettare un edificio antico e realizzare, a partire dal suo rispettabile stato, qualcosa di nuovo e di riconoscibile solo a un secondo sguardo. Qualcosa di cui Aldo Rossi, Ernesto Rogers, e forse addirittura Brunelleschi e Palladio si sarebbero rallegrati.
Il testo è tratto dall’intervento di Hans Kollhoff all’VIII Congresso Nazionale Architetti PPC tenutosi a Roma nel mese di luglio 2018





