
Sull’abitare
Testo di Vincent Van Duysen
n.2 settembre/ottobre 2018
I lavori di Vincenzo Melluso e Vincent Van Duysen propongono due pensieri appassionati sul modo di progettare per abitare l’architettura, riportandoci ai valori fondamentali del fare architettura oggi. Qui i luoghi dell’abitare si esprimono in un equilibrio delicato e raffinato, tra conoscenza della tradizione e dell’innovazione, capace di dare un senso profondo alle cose. Due esperienze emblematiche, fondate su un forte impegno civile, in cui la molteplicità degli elementi utilizzati trova sempre una giusta sintesi formale senza cadere mai nei vani formalismi e nelle chimere dell’high-tech che sono purtroppo diventati alcuni dei caratteri più negativi ed evidenti assunti dalla nostra disciplina nell’epoca attuale.
Ho cominciato a studiare architettura in Belgio, nei primi anni Ottanta, all’apice del periodo postmoderno. Di lì a poco sarebbero giunti il decostruttivismo di Zaha Hadid, Daniel Libeskind, OMA e Coop-Himmelb(l)au, e successivamente il post-decostruttivismo, con tutti i suoi relativi formalismi e colori. All’interno di questo particolare contesto culturale, i miei studi a Ghent erano completamente concentrati sulla ‘forma’ dell’architettura, sulla progettazione di singoli ‘oggetti’ dalla natura forte e definita. Se guardo indietro al periodo di allora, il mio approccio calmo e contemplativo nei confronti degli spazi e degli oggetti è l’esatto contrario; ma ero giovane, dovevo ancora formarmi e trovare un mio linguaggio.
Nel 1985, subito dopo aver terminato gli studi, ho incominciato a lavorare presso lo studio di Aldo Cibic, uno dei membri fondatori del Gruppo Memphis insieme a Ettore Sottsass, Alessandro Mendini e molti altri. Penso che sia stato durante la mia permanenza in Italia che iniziai a elaborare un approccio più personale al design, una mia visione che, lentamente, iniziò a costruirsi da sola. Ricordo ancora: stavamo ideando e producendo famiglie di mobili e accessori con il solo obiettivo di creare un senso di qualità e armonia all’interno della casa. L’approccio era sostanzialmente modulare, conforme alla pratica di quei giorni; tuttavia, i mobili descrivevano lo spazio in maniera architettonica. E questo mi affascinava.
Dopo questa esperienza a Milano, ho lavorato con Jean de Meulder, un decoratore belga, immergendomi completamente nel mondo del cosiddetto ‘interior design’. È stato un periodo importante, mi ha permesso di capire come le persone abitano le loro case; ho scoperto un’arte di vivere che, più tardi, credo di essere riuscito a plasmare anche nei miei lavori.
Sto usando la parola ‘design’, sebbene in realtà mi abbia sempre messo a disagio, così come la parola ‘designer’. Forse è perché sono un architetto e vedo le cose con una prospettiva più ampia. Per molti anni ho combattuto contro una certa idea superficiale di design, che oggigiorno è in realtà una produzione seriale, spesso macchiata dalla mediocrità. In passato c’era una certa integrità che ora è andata perduta; ci sono pochissimi architetti che prestano attenzione al vero benessere. Lo hanno fatto Victor Horta e Henry van de Velde in Belgio, Achille Castiglioni o Carlo Scarpa in Italia. Ma oggi abbiamo troppe archistar che ignorano ciò che esiste all’interno delle mura che costruiscono. L’interior design, come oggi viene chiamato, non è un’arte minore. È anzi essenziale e non può essere svalutato: è dove tutto trova una propria sintesi.
Nel 1990 ho aperto il mio studio: ho iniziato a mettere in pratica ciò che avevo imparato negli anni precedenti, durante il mio apprendistato. Questo consisteva in un atto teso a ricercare un’essenzialità altamente purificata, in grado di adattarsi alla storia di ogni ambiente e di curarne ogni dettaglio. Fin da questo momento di partenza – oramai quasi 30 anni fa – la cosa più importante è sempre stata quella di considerare l’architettura una professione dedicata all’umanità; e ciò significa partire dai luoghi, dalle persone che li abitano e che hanno bisogno di sentirsi protette e serene. Attraverso i mobili e gli oggetti che li circondano, cerco di aiutarli a vivere una vita felice. Questo è il motivo per cui il rapporto con i clienti gioca un ruolo fondamentale. È insieme a loro che condivido una visione sull’arte del vivere, in cui l’approccio dell’architetto si fonde con le aspettative del cliente. L’empatia e la conoscenza della natura umana sono le qualità più importanti in architettura, perché non solo ti permettono di realizzare progetti migliori per il cliente, ma anche di tradurre meglio i concetti ai costruttori del progetto stesso.
Mi sto concentrando su quello che viene comunemente definito interior design, ma non l’ho mai visto come un qualcosa di scisso dall’architettura: gli interni sono architettura. Interni ed esterni sono strettamente intrecciati, e continuo a pensare come architetto anche quando si tratta di comporre un interno. Del resto, il filo rosso che lega insieme i miei lavori, su tutte le scale, rimane un’attenzione particolare alla percezione dello spazio architettonico, da percepire attraverso i sensi: uno spazio visivo, tattile, olfattivo. Su tutte le scale ho sempre messo al centro il benessere delle persone, in modo rispettoso, nel tentativo di donare un’anima e una personalità a degli spazi in cui vivere bene, in cui relazionarsi realmente con gli altri. Circondati da calore, bellezza, tranquillità. Del resto, come si può progettare una casa senza conoscerne la ritualità?
Bisogna essere in grado di percepire le sue funzioni indispensabili, se si vuole darle forma senza cadere nel formalismo oggi purtroppo dominante, o nell’high-tech. Devo ammettere di essere distante da queste tendenze. Per esempio, amo i materiali naturali, come la pietra, il legno e il lino.
Sono continuamente ispirato da tutta la storia dell’architettura: dai templi egizi di Luxor; dalle strutture tribali del Marocco; dalle chiese romane; dal lavoro di Andrea Palladio, Carlo Scarpa, Tadao Ando, Luis Barragán. I materiali, le sequenze visive, le proporzioni, l’essenza architettonica di questi spazi mi entusiasmano; è anche attraverso questi riferimenti che ho imparato a giocare con le materie prime per raggiungere quella consapevolezza sensoriale e quella sensualità che spero caratterizzino i miei progetti.
Non sto cercando di inventare nuove forme. Il mio obiettivo è solo quello di creare spazi carichi di emozione, con cui le persone vogliano relazionarsi e vivere. Ho l’ambizione di farle abitare meglio, creando i luoghi, gli arredi che li aiutano a farlo. E in questa ricerca, non può esistere un’architettura dell’interno separata dal resto dell’architettura.
Mi piace che le persone si riferiscano al mio lavoro parlandone come un qualcosa ‘senza tempo’, lo apprezzo, ma per me è importante che il mio lavoro continui a essere contemporaneo, sorprendente, e che entri in contatto con le persone sul piano emotivo. Ci troviamo nel mezzo di un mondo di consumo istantaneo, in cui tutto è facile, alla nostra portata, immediato; voglio offrire un contrappeso. Voglio creare spazi per calmare i sensi e permettere di concentrarsi sull’istante presente. Tendiamo a essere sempre più distanti dall’essenza di ciò che è l’arte del vivere, non sappiamo più cosa significhi. Voglio rallentare e rendere l’uomo più consapevole di ciò che lo circonda. È un modo di vivere una vita più cosciente. È il solo modo di abitare.






