
Sul cantiere della metropolitana di Napoli stazione Municipio
n.1 luglio/agosto 2018
Con il progetto per la stazione Municipio della metropolitana di Napoli, l’architettura torna nuovamente a confrontarsi con la tematica della città: la sua scala, i suoi imprevisti, le sue attese.
I quasi quindici anni trascorsi dall’inizio del progetto tendono ad apparire un tempo appropriato all’incredibile ricchezza di un palinsesto come quello napoletano.
Eduardo Souto de Moura Facciamo iniziare a parlare Siza, che ha incominciato prima di me.
Álvaro Siza Io ho cominciato a vivere, molto prima di te.
ESM Intendo dire a Napoli!
ÁS Alcune cose le ho dimenticate, perché lavoriamo su questo progetto da quindici anni. Se dico cose che non sono del tutto corrette – Eduardo – correggimi. Sono stato contattato per fare una stazione della metropolitana di Napoli, quella di piazza del Municipio. La mia prima reazione è stata quella di fare il nome di Eduardo, dicendo che dovevamo lavorare insieme. Le ragioni erano diverse, principalmente la grande esperienza di Eduardo per quanto riguarda le metropolitane, avendo lui progettato la metropolitana di Porto e avendone diretto i lavori per diversi anni. La persona che mi ha invitato è stata l’ingegnere Giannegidio Silva, proveniente dalla MM di Milano –società che progetta e realizza le linee metropolitane di Milano – e per tanti anni, il presidente della metropolitana di Napoli. Una persona straordinaria, molto giovane nello spirito, nonostante l’età. Oggi, dopo la sua scomparsa prematura, c’è un altro direttore per la metropolitana. Silva aveva un obiettivo molto chiaro: fare delle metropolitane di Napoli anche un’opera dedicata all’arte; la maggior parte delle stazioni hanno, al loro interno, lavori di diversi artisti da lui invitati. Le metropolitane normalmente sono sotterranee, e a Napoli, con i suoi monti, non c’è altra possibilità. Il problema a Napoli è che, quando fai anche un piccolo buco, escono fuori inevitabilmente reperti spagnoli, romani, greci, arabi, normanni… tutto! Non siamo ancora arrivati alla preistoria, tuttavia, per esempio, gli archeologi hanno trovato un vecchio porto romano e successivamente – durante i lavori, scavando più a fondo – il porto greco. Ora sono entrambi esposti nelle stazioni. Uso il plurale perché le stazioni sono due, collegate tra di loro attraverso le scalinate e gli ascensori. La piazza Municipio ha una forte pendenza che va fino alla parte marginale, di fronte al porto dei transatlantici. La prima proposta che ho fatto – e che era già un proposito dell’amministrazione – è stata quella di costruire una galleria della metropolitana che andasse sino al porto, passando a un livello inferiore, per captare tutti i turisti che vengono dal mare e portarli in centro. Volevamo che l’accesso principale alla stazione si facesse attraverso il fossato del castello e abbiamo incominciato gli scavi con quest’obiettivo. Abbiamo iniziato immediatamente a trovare diverse rovine archeologiche; come prima scoperta, delle grandi e bellissime mura che servono a limitare il fossato. La prima decisione presa è stata dunque di perforarli, per farne la porta di accesso alla stazione. Successivamente, abbiamo iniziato ad articolare le due stazioni, con l’accesso angolare e la definizione degli accessi esterni, sempre in collaborazione con l’équipe della metropolitana. Tu cosa hai da dire, Eduardo?
ESM Innanzitutto, che è stato un piacere lavorare con un architetto come Álvaro, che ha una grande esperienza: lo ringrazio di avermi invitato. Come sempre, il problema dell’architettura è un problema tecnico. Ebbene, Siza pensa che io sia un esperto di metropolitane, ma non ci capisco niente!
ÁS No, ma sei un esperto in architettura.
ESM Oltre a Silva, che è stato il vero motore del progetto, altrettanto fondamentale è stata la figura di Alessandro Mendini. È vero o no?
ÁS Mendini, sì. Non è certo un costruttore ma ha sostenuto il progetto e ha fortemente voluto l’inclusione dell’arte all’interno delle stazioni della metropolitana di Napoli.
ESM Oltre a Siza, sono stati invitati diversi altri architetti: Tusquets dalla Spagna, Perrault dalla Francia, Magnago Lampugnani dall’Italia, Kollhoff dalla Germania…
ÁS E anche la signora di Milano, Gae Aulenti.
ESM Sì, è stato Mendini a chiamare questi architetti. Ed essendo Mendini un non costruttore, c’è una certa tendenza post-moderna nelle metropolitane di Napoli. Ho visitato le stazioni, e non posso certo dire che siano stazioni minimaliste; c’è molta decorazione, molto colore. Non sto facendo una critica, ma un appunto. Questo è un primo punto che credo essere importante. In secondo luogo, voglio sottolineare quale sia stato, per me, il valore più rilevante di quest’esperienza; oltre a lavorare con Siza che è sempre, ovviamente, un piacere e una consuetudine dalla quale, ogni volta, imparo. Questo è il progetto che penso tutti gli architetti vorrebbero avere. Innanzitutto, c’è una componente urbanistica forte: tra la stazione marittima e il municipio corre circa un chilometro, dunque si tratta di un intervento urbanistico importante. Poi, c’è l’intervento architettonico, quello dei binari, particolarmente difficile. Ancora, una componente di design: piccoli oggetti come le panchine, i cestini per la carta, e altro. Infine, lavorare con l’archeologia, la storia: l’ambizione di tutti gli architetti. Intendo la storia con la S maiuscola: la Grecia, Roma, il Medioevo, gli angioini, gli spagnoli, il Novecento, fino a oggi. Gli insegnamenti di questo progetto – che sta arrivando a compimento, mancano altri due anni – sono dati dal suo essere un progetto di ‘continuità storica’. Non in senso figurativo, bensì nel modo di lavorare. Gli architetti cristiani del medioevo, per esempio, rubavano le colonne romane per fare le chiese. Ecco, noi utilizziamo l’archeologia non come un campo d’investigazione, non come materiale di contemplazione scientifica, ma come materiale utile ai nostri progetti. Un muro di pietra non è là solo per essere fotografato e per affiancarvi una legenda con scritto ‘muro antico romano’ o ‘spagnolo’; per noi, questo muro serve ad appoggiare il soffitto di tutta la stazione. Un rapporto con la storia operativo, piuttosto che contemplativo. Tutti questi livelli e strati di storia che si incrociano: per me, questa è stata la grande lezione. Oltre, ovviamente, all’aver lavorato con Siza.
ÁS Penso sia interessante anche sottolineare come sia stato lavorare con gli archeologi: all’inizio il rapporto è stato molto difficile; verso la fine, molto efficace. Inoltre, ha conferito un ritmo speciale alla costruzione. Posso sintetizzarlo così: quando entravamo a lavorare noi architetti, eravamo agitati, in emergenza assoluta. Poi, entravano gli archeologi, di cui la maggior parte erano donne.
ESM Erano tutte donne! Giusto il sovrintendente cambiava spesso, non so perché!
ÁS Quando entravano le archeologhe, c’era un momento di riposo per noi dato dal tempo dell’archeologia. Arrivavano sul cantiere, con i loro vestiti e guanti bianchi, con assoluta calma, lentamente, per pulire con un pennellino una piccola ceramica. Mi ricordo apparire un mosaico che ritraeva un occhio e chiesi all’archeologa di offrirmelo; del resto, questo meraviglioso occhio sarebbe probabilmente andato in un magazzino dove nessuno più l’avrebbe visto! Ma lei mi disse di no, che non era possibile. Mi piace la tranquillità degli archeologi, fa da contrappunto al tumulto costante di Napoli. Il traffico, le motociclette, le macchine. Eppure, è curioso, tutto funziona, alla fine. A Napoli esiste una cultura della convivenza tra le macchine e le persone che funziona benissimo. Tutti conoscono l’arte della convivenza e della tolleranza, a discapito di qualche parola dura, ogni tanto. Una volta ero stato invitato a fare una conferenza, e ho messo come titolo della relazione L’elogio del caos. Suona un po’ strano, ma è quello che ho pensato a Napoli. C’è una vita urbana incredibile, e nell’aria si sente la gioia di vivere. È una cosa fantastica.
ESM Napoli è il più bell’esempio della vita. La gente, la gastronomia, la storia. Se c’è una città completa e complessa, questa è Napoli. Avevo un certo sospetto, il quale ha trovato conferma: il progetto non è stato soltanto una questione di composizione, ma anche un progetto di convivenza. Nei primi tempi, il rapporto con l’archeologia è stato come quello con una macchina, abbiamo dovuto trovare la giusta taratura, il punto d’equilibrio. Quando gli archeologi hanno capito che non siamo dei banditi, nemici della preesistenza, il rapporto ha cominciato ad andare molto bene. E quando noi architetti abbiamo capito che l’archeologia non impedisce al progetto di svilupparsi dal punto di vista tecnico o poetico, le cose sono andate ancora meglio. Nel progetto ci sono momenti di varie intensità ed è come giocare con la frizione, l’acceleratore e il freno di un’ automobile. Inoltre, ci sono anche delle situazioni nelle quali il cliente non è molto d’accordo e l’archeologia diventa allora un sostegno per affermare il punto di vista degli architetti. Quando penso che il governo italiano ha dato i soldi per un progetto di questo tipo, mi rendo conto ancora di più di quanto sia importante. E continua a farlo ancora oggi, dando i soldi per finire il progetto; dobbiamo lavorare minimo altri due anni! Non si tratta solamente di un mezzo di trasporto per la città, ma anche di un progetto culturale da perseguire. E questo penso sia stata la più grande vittoria. Non solo nostra, ma di tutti. Ho poi un appunto da fare, riguardante i quindici anni trascorsi dall’inizio del progetto. Per me è normale lavorare a un progetto per così tanto tempo.
ÁS Anche io voglio fare un appunto. Innanzitutto, devo sottolineare la qualità del lavoro degli operai, le abilità dei lavoratori della pietra. Poi, vorrei sottolineare come questo progetto sia stato, ed è ancora, un’avventura. Abbiamo trovato, durante i lavori, due straordinari bastioni del castello che erano sotterrati e, adesso, sono una parte della definizione dello spazio della metropolitana. Questo progetto è un’avventura perché di solito siamo abituati a fare l’esecutivo e, successivamente, non poter più cambiare niente. Arriva il responsabile dell’opera e dice “questo non si può fare”, anche se il cambiamento – non disegnato nell’esecutivo – è visibilmente fantastico. Questo è un progetto aperto, un’approssimazione… questo è il ‘caos di transito’ di cui parlavo prima, questa mobilità tipica di Napoli che riscontriamo anche nel progetto. Quando appare un manufatto straordinario, come il bastione, il progetto diventa un’avventura costante, non c’è un momento di calma. E questo, per chi fa architettura, è una benedizione.
ESM C’è bisogno di tempo per le idee. Puoi viaggiare con il treno ad alta velocità, puoi avere il computer per andare più in fretta, ma il tempo per il pensiero è sempre quello; alla fine l’architettura è sempre una cosa mentale e il cervello è sempre lo stesso da millenni. La velocità non esiste in architettura. Per me è normale stare così tanto su questo progetto. Sono stato vent’anni sul museo dei trasporti, ho lavorato tredici anni sulla metropolitana di Porto, dodici anni sul convento di Santa Maria do Bouro.
ÁS Sono cose normali, in particolare se paragonate ad altre come per esempio, il progetto a Venezia, a Campo di Marte, che ho fatto quarant’anni fa: non è ancora finito! E già quello, in parte, l’ho trovato normale. Che un progetto di queste dimensioni, come quello di Napoli, duri quindici anni mi sembra logico, perché ci sono tanti problemi da risolvere in corso d’opera: il rapporto con il patrimonio oppure la zona del porto, dove c’è un altro piano urbanistico e dunque la situazione è molto sofisticata e complicata. Il caso di Venezia è diverso, non c’è spiegazione. Qualche tempo fa, parlando di esperienze lavorative fuori dal Portogallo, ho raccontato di un’esperienza molto brutta avuta in Francia, alcune altre in Spagna. Sono arrivato ad avere l’abitudine di dire “preferisco l’Italia, dove perlomeno l’opera non si fa!”. Ma il lavoro a Napoli è stato molto buono. Vedere la gioia degli archeologi nell’eseguire il loro lavoro, gli occhi lucidi di piacere degli operai per ciò che si fa, com’era comune in Portogallo cinquant’anni fa, è un qualcosa di straordinario.
ESM È vero. Nei congressi, quando partecipo per discutere d’architettura, c’è la tendenza a dire: “Ma questo è il Portogallo. Le regole sono diverse, sono opere artigianali!”. Non è vero! La qualità del lavoro a Napoli è altissima. Basti vedere solamente le banchine curve realizzate con le enormi pietre nere dell’Etna, tagliate e poi montate: mi viene quasi da pensare che non sia possibile! Quando giungevamo al cantiere, il gruppo di operai aspettava di prendere Siza e dirgli: “Venga qua a vedere il mio lavoro!”. Ecco, questo è ancora possibile, in Italia. Dipende, soprattutto, dalla qualità del progetto – una questione di rispetto, che gli operai capiscono molto bene. E ha come conseguenza la gioia del lavoro. Poi c’è la questione delle opere d’arte, che non capisco molto bene. Oggi, si fanno spesso delle opere d’architettura povera, nelle quali si deve poi fare una decorazione, mettere dei colori. Noi – e in particolare Siza – abbiamo sempre fatto una certa resistenza. Dovrebbero essere le pietre romane, i mattoni, i muri, le colonne di calcestruzzo contemporanee, a fabbricare l’opera d’arte. Come in cucina, dove non c’è bisogno di mettere troppo sale!
ÁS Io capisco questa ansia per le opere d’arte contemporanea. La capisco in generale, ma a Napoli ritengo di capirla molto meglio. C’è una tensione dovuta alla forza, alla potenza, alla qualità di quello che c’è sottoterra e che emerge, che causa un’ansia nei confronti della modernità. Io capisco questo bisogno di equilibrio. Indipendentemente dai risultati. Questo progetto è stato un’opportunità incredibile, rara.





















