
Sei mesi dopo
Testo di Nicola Di Battista
n.1 luglio/agosto 2018
‘Oggi in Italia abbiamo decine di architetti di ottima qualità; e, se vivessero in un mondo più ordinato, capace di lasciarli lavorare con serietà, potrebbero fare delle cose ottime. Queste decine di architetti, messi in un ambiente diverso – e non voglio fare il nome di nazioni dove si lavora più seriamente – potrebbero diventare degli ottimi architetti. Abbiamo una materia prima straordinaria, ma le condizioni ne rendono difficile l’uso: è una specie di lotta eroica.
Ci vogliono tanta diplomazia e tanta pazienza, virtù che sono necessarie, oltre alla capacità che è indispensabile, in architettura’ – Adalberto Libera
Sono passati solo pochi mesi da quando ho lasciato la direzione della rivista Domus, anzi Domus la città dell’uomo, eppure questo tempo mi è sembrato lunghissimo. Due le principali ragioni, tra le altre, di un tale sentire: la prima è dovuta probabilmente al fatto che ho dedicato a questa rivista ‘amorevoli cure e impegno illimitato’ per molti anni, da non riuscire più a stare senza una rivista cui lavorare; la seconda ragione è che le cose da fare sono ancora talmente tante, che ero impaziente di tornare a farle. A ben vedere entrambe queste ragioni sono vere, coesistono, e proprio per questo motivo mi sento, oggi, fortunato di poter proporre con la rivista l’architetto, un nuovo progetto con cui tornare ai miei amati lettori, quelli di ieri e, spero, ai tanti altri di oggi.
Di questa opportunità sono grato e ringrazio di cuore il Consiglio nazionale degli architetti italiani che ha fortemente voluto e sostenuto questo progetto culturale e, in particolare, il presidente Pino Cappochin, che con il suo entusiasmo contagioso mi ha dato fiducia e motivazioni sufficienti per intraprendere di nuovo un’avventura editoriale.
Un ringraziamento particolare va anche alla casa editrice Edizioni di Comunità, nella persona del suo direttore Beniamino de’ Liguori Carino – e dei suoi collaboratori – che ha deciso di realizzare un nuovo progetto editoriale malgrado l’editoria cartacea di settore viva momenti difficili.
Alle condizioni attuali è indispensabile partire proprio da quest’ultima considerazione, che vede, nel nostro Paese, la stampa specialistica che si occupa della questione dell’abitare in un perenne dissidio tra una proliferazione produttiva enorme – che possiamo affermare, con certezza, essere unica al mondo – e una diffusione e vendita sempre più ridotte e di nicchia.
Ora, possiamo dire che la super produzione cartacea di riviste e di pubblicazioni che si occupano di architettura e design ha rappresentato e continua a rappresentare la vivacità e l’interesse suscitati dal tema dell’abitare in Italia, e anche la tanta ricerca e il tanto lavoro che questi prodotti sottendono. Allo stesso tempo però se tutto ciò è vero, non possiamo comunque esimerci dal dover dare un giudizio complessivo su quanto si pubblica.
Ci accorgiamo allora che le tantissime pubblicazioni si sovrappongono senza mai confrontarsi tra loro, rispondendo soprattutto a logiche locali e interessi particolari. E se da una parte questo è un bene, perché così vengono rappresentati punti di vista particolari e differenti dai singoli territori, dall’altra, tale produzione – completamente avulsa da una realtà d’insieme del Paese – finisce per inibire un qualche discorso collettivo capace di valere non solo localmente, per pochi, ma più in generale per la disciplina e per i tanti che la praticano e la frequentano, a prescindere da quale luogo o territorio lo facciano.
Accingendoci perciò a rieditare la storica rivista degli Ordini, l’architetto, nata nel lontano 1956, la prima questione, ineludibile, cui rispondere, è per noi: a cosa serve oggi una nuova rivista di architettura?
Una tale domanda rischia di apparire una vera e propria provocazione; come se non ce ne fossero già abbastanza di riviste, al punto da sentire la necessità di farne ancora un’altra. A ben vedere però le cose non sono così semplici come appaiono a prima vista: cerchiamo allora di capire il perché. Lo facciamo partendo da una considerazione semplice e, speriamo, chiara e condivisibile: il fatto che il mondo attuale vive un momento particolarmente complesso e difficile della sua lunga storia, un momento di passaggio da un’epoca a un’altra, un momento in cui i valori che hanno sostenuto, alimentato e costruito il nostro passato sembrano non essere più buoni per noi. Per contro un futuro che sembrava a portata di mano, fino a poco tempo fa, si allontana sempre più e si stenta persino a costruire nuovi valori in grado di sostenere il nostro presente. Le tante cose prodotte in questi ultimi anni non sono riuscite a dare risposte convincenti e adeguate alle nostre aspettative, a esprimere pensieri e opere capaci di generare speranze di futuri migliori alla cui costruzione applicarsi con rinnovata passione e gioia di vivere.
Tutto questo sembra aver generato invece una sorta di stagnazione, di rassegnazione, di forzato immobilismo, in chi questo tempo vive, al punto da togliergli anche la forza di reagire. Ecco, per contrastare e sconfiggere questo stato delle cose, pensiamo che sia ancora necessario impegnarsi a fondo nel sostenere le proprie idee e cercare una condivisione collettiva, la più ampia possibile. Per raggiungere tali obiettivi anche una rivista può essere importante. Di fronte a un futuro incerto e instabile, la capacità di ascolto degli uomini aumenta notevolmente ed è proprio per questa ragione che se si ha qualcosa da dire, bisogna dirlo con determinazione e perseveranza, con forza e chiarezza, con la consapevolezza che da quanto saremo in grado di pensare e di fare oggi, verrà determinato il nostro futuro. Abbiamo la straordinaria fortuna di vivere un tempo, quello del cambiamento, e non dobbiamo perdere l’occasione di indirizzarlo. Il generale malessere del mondo attuale, di fronte alla questione dell’abitare, ci obbliga a cercare soluzioni buone non solo per noi adesso, ma anche per chi verrà dopo di noi, per le generazioni future, e questa non è solo una necessità del nostro Paese o della nostra vecchia Europa, bensì del mondo intero, che lo chiede ormai a gran voce.
Quale idea dell’abitare portiamo avanti, quale maniera di abitare il XXI secolo abbiamo da proporre, quali le innovazioni che in questo campo siamo in grado di offrire, quale speranza di un abitare migliore per tanti e non per pochi siamo capaci di alimentare con il nostro lavoro? Come si vede la posta in gioco è alta, molto alta, ed è proprio la questione dell’abitare, la sfida che ci attende nei prossimi anni. Il cambiamento di cui parlavo sopra è ormai improcrastinabile, urgente, non più rimandabile, e questo per tantissime ragioni, talmente conosciute che non vale più la pena neanche ripeterle: una litania di ragioni che, da anni e in tutti i continenti, la parte migliore della società contemporanea ha analizzato così a fondo che nessuno può dire di non sapere. Sappiamo di aver realizzato un ‘abitare’ nel suo complesso insostenibile, buono solo per pochi e male, anzi molto male, per tantissimi altri, troppi. Così non si può certo andare avanti e, per questo, c’è di nuovo urgente bisogno, ancora una volta, di ‘un punto e a capo’ per l’architettura.
È importante che oggi l’architettura si faccia carico di questi problemi, come più volte nella sua millenaria storia è stata capace di fare, e proponga una nuova maniera di abitare, adeguata al nostro tempo, ai nostri tanti luoghi e a essi indissolubilmente legata.
In questi ultimi anni, la nostra disciplina ha continuato a perdere generazioni di architetti, che non sono riusciti a esprimere le loro capacità, le loro passioni, perché non c’erano le condizioni per farlo; ed essendo il nostro mestiere di natura squisitamente collettiva, non lo si può certo realizzare da soli. Queste generazioni sono state costrette a far diventare il loro essere architetti semplicemente un lavoro, un lavoro e basta, senza coltivare più l’ambizione di contribuire a cambiare il mondo.
Alcuni tra essi, e io con loro, hanno preso atto che in quel momento non ci fossero di fatto le condizioni perché si realizzasse una nuova architettura, perché si portasse a termine un cambiamento civile capace di sostenere e riconoscere l’architettura come una disciplina necessaria alla realizzazione del bene comune più grande che abbiamo, l’ambiente costruito, sia in città sia in campagna. Si è così rinunciato all’idea di realizzare un cambiamento e lo si è fatto in maniera consapevole, lavorando per contro alla costruzione lenta e paziente di quanto ancora servisse per ricreare le condizioni che lo avrebbero reso possibile. Quindi in tanti, per così dire, sono stati costretti a lavorare non per cambiare in meglio l’ambiente costruito – questo non era possibile – ma a tenersi pronti, ad aspettare che le condizioni sociali e civili, al di fuori della disciplina, chiedessero questo cambiamento e offrissero le possibilità di realizzarlo.
Sono stati anni passati nell’attesa che qualcosa succedesse; anni in cui ognuno ha cercato di cavarsela come ha potuto; anni in cui ogni lunedì mattina è venuta fuori una nuova ideologia: tecnologica, sociologica, economica, ecologica, formalistica, e così via; tutte con la presunzione di risolvere per proprio conto il problema di come costruire la città del futuro, dando però, in questa maniera, solo la sensazione di farla franca e niente altro.
Ora, quello che abbiamo intorno a noi, per quanto riguarda l’ambiente costruito, è insostenibile, non è più buono per noi, al punto che sono ormai in tanti a pensarlo. Per questo oggi bisogna cambiare passo, cambiare il punto di vista e voltare pagina.
Oggi è questo momento: il momento del cambiamento. Non c’è niente da aspettare, il cambiamento va fatto adesso, non domani, perché sarebbe da irresponsabili continuare ad attaccare quadri mentre la nave affonda. Noi comunque non lo vogliamo.
Alle condizioni attuali il nostro Paese può di nuovo tornare a essere protagonista nel nostro tempo – come più volte ha fatto nel passato – sulla questione dell’abitare, e può farlo da subito; ha tutto quanto gli serve per farlo, ha donne e uomini capaci, ha comunità intere che con i loro straordinari luoghi ci incitano e ci spingono a fare meglio, ma soprattutto ha nella sua lunga storia dimostrato più volte, e in epoche differenti, di saper abitare, facendo addirittura dell’abitare un’arte.
Per questo oggi può farlo di nuovo.
Sarebbe allora davvero straordinario se proprio la comunità degli architetti – questa volta unita e compatta – si facesse carico di guidare questo cambiamento teso alla ricerca di un abitare migliore e lo proponesse all’intera società.
Non è questo il momento dell’algoritmo, ma quello del pensiero, e su questo, sono sicuro, che abbiamo molto cose da dire. E la rivista cercherà di dirle.
