Memoriale di Rivesaltes

‘Sans concession’

Testo di Rudy Ricciotti

n.4 luglio/agosto 2019

In questo numero proponiamo ancora due punti di vista su uno dei temi più delicati della nostra disciplina, uno dell’architetto milanese Mauro Galantino e l’altro dell’architetto francese Rudy Ricciotti che si confrontano ‘sulla costruzione’. 
Le parole e le opere – frutto della grande passione per la loro arte e della loro sapiente pratica quotidiana del ‘fare’ – seppure diverse e lontane nell’uno e nell’altro, testimoniano le molteplici sfaccettature di un vecchio mestiere come il nostro. Due maniere di intendere la costruzione, considerata per entrambi fulcro dei loro progetti e misura essenziale del loro lavoro

È proprio un mestiere ansiogeno quello dell’architetto. La paura di far male, che bisogna saper superare, si annida nel cuore di ogni progetto. Curiosamente, con il tempo, mi sento meno ansioso. Non che l’ansia sia sparita – non c’è ragione che lo faccia, ‘sta stronza…’ – ma in compenso l’avverto con meno pesantezza. Mi sono abituato molto presto agli attacchi, agli sputi, ma ho imparato a proteggermene, dato che il nostro mestiere non si fa mancare nulla sotto questo aspetto.

Detesto perdere tempo inutilmente sui progetti. Non mi piace ripetermi e in generale ho relativamente poca concentrazione. 

Come in questa foto d’archivio pubblicata in MEFI, il libro sullo Stadium di Vitrolles da poco realizzato da Enzo Rosada. Mi si vede in giacchetta, le mani dietro la schiena, curvo su un tavolo dove campeggiano i progetti esecutivi sviluppati dai miei collaboratori in maniche di camicia. Sembro un dilettante capitato per sbaglio in una stanza dove la gente lavora e non c’è posto per lui. Ma è vero che chiuso tra quattro mura non riesco a concentrarmi, le idee mi vengono all’aperto. Magari al volante di un’auto, magari in mare aperto…

È solamente questione di intuizione. Penso a una funzione, a un sito e visualizzo gli spazi, i materiali. Do forma ai progetti mentalmente senza alcun aiuto di piante e di sezioni. Quando viaggio in auto, quando sono in treno oppure in aereo, medito. Riesco a dar forma visivamente a dei progetti senza aiuto grafico, a ricostruire mentalmente quel che voglio. Non è facile: è estenuante. Quando ho fatto il MuCEM, l’ho immaginato. Per costruirlo ci sono ben voluti 12 mila pagine di calcoli statici. Ma è esattamente identico a ciò che avevo immaginato.

Ho un rapporto ansiogeno quanto psicopatico con il principio di creazione: decido, faccio. Qualche volta alla cieca. Quando non ho sufficiente visibilità sulle risposte da dare, passo alla pratica. Agisco. In questo senso sono un costruttore. Ne ho tutte le stimmate, per la caratteristica irreversibilità delle decisioni prese. Nel nostro mestiere siamo come piloti collaudatori. Un’opera è come un aeroplano: arrivati al limite della pista bisogna tirare la cloche e decollare. Bisogna aver fegato, fidarsi di tutte le apparecchiature. Faccio il mio mestiere con questo spirito, affrontando di petto le difficoltà. Non sono uno di quegli architetti che si nascondono dietro gli altri.

Prima di pensare a divertirmi, cerco di difendere quest’idea. Del resto so che cadrò sempre in piedi, come un gatto. E riuscirò sempre a fare qualcosa di bello. Sono vanitoso senza alcun ritegno, ma ho successo in tutto quel che disegno perché lo faccio con convinzione, con fede, con combattività, credendoci. In senso estetico. È l’ombra portata dello sguardo politico. Questa fiducia ci deve portare a trasgredire i limiti, anche quelli dei regolamenti. Nel mio mestiere spesso mi sono assunto dei rischi senza rete di sicurezza. Quando ho fatto casa Navarra, con il tetto di calcestruzzo, era una cosa fuori da qualsiasi campo normativo.

Il punto vero, la sola domanda fondamentale su cui deve concentrarsi tutta la nostra attenzione, è decidere se siamo o meno in grado di trasformare la realtà. Dato che l’architettura serve, come io credo, a ricostruire il mondo, a garantirgli un futuro, appare evidente che non può esserci architettura senza una dimensione politica in agguato. E accettare questo fatto non è cosa da poco. La politica è la gemella dell’architettura. L’una non può procedere senza le informazioni dell’altra. Le costruzioni non si innalzano in mezzo al nulla. Derivano da una serie di decisioni di evidente carattere politico. Se non che il carattere politico di una decisione, fondamentalmente legittimo, viene ben presto alterato dai filtri successivi: pianificatori, esperti, amministrazione, finanziamento, assicurazioni, utenti decisori. Alla fin fine la sintesi naviga a vista. Ricade nelle attività dell’architetto sbrogliarne il senso nel modo più adeguato, dato che l’architetto non costruisce mai nulla da solo. In cambio se ne assume la responsabilità, in gran parte. Colare il calcestruzzo, quando si sceglie il calcestruzzo, costruire, significa assumersi rischi importanti. Bisogna essere disposti all’impopolarità, a ritrovarsi sul banco degli accusati, in difficoltà.

Lavoriamo a esperienze in cui l’intuizione si mescola alla scienza. I risultati scientifici hanno sempre alimentato i ragionamenti costruttivi. L’architetto è portatore di un punto di vista estetico e di un punto di vista scientifico che vivono more uxorio. Ne sono convinto. L’ultima generazione di ponti pedonali, a Londra, a Parigi o al ponte del Diavolo non sarebbe mai esistita senza la conoscenza matematica dei fenomeni aeroelastici. La tecnologia degli ‘esperti’ mescolata allo spirito d’avventura apre le prospettive dell’architettura. Ciò implica dei doveri. Quello di non esitare a mettersi a rischio. Quello della lotta contro un consumismo fondiario fatto di parallelepipedi con dentro prodotti da vendere, che sul piano economico non producono nulla o davvero poco. Sicuramente, per qualcuno, questi scatoloni in lamiera hanno il pregio di essere fatti con la qualità minima accettabile, di fabbricare posti di lavoro martirizzati dal salario minimo garantito, e di fare da assorbente ad un’economia cinese delocalizzata.

Dal mio canto cerco di produrre un’economia territorializzata e di fare in sorta di disegnare progetti che possano contribuire a difendere dei posti di lavoro.

È diventata un’ossessione. Cosi come difendere una memoria del lavoro locale.

È il modo per ritornare alla coesione sociale.

Nel XIX secolo, ci volevano cento parole per descrivere una facciata, oggi ne bastano tre o quattro.

Se abbiamo perso il 96% delle parole, significa che abbiamo perso il 96% dei mestieri, dei loro nomi e della loro memoria.

Memoriale di Rivesaltes
Pianta Memoriale di Rivesaltes
Veduta Memoriale di Rivesaltes
Ricciotti Stadium Vitrolles
Ponte Repubblica Montpellier Ricciotti
Ponte Repubblica Montpellier Ricciotti
MuCEM Ricciotti
MuCEM Ricciotti
Pianta MuCEM Ricciotti