
Robert Venturi e Roma
Testo di Paolo Portoghesi
n.5 settembre/ottobre 2019
Paolo Portoghesi ci accompagna alla scoperta di uno dei grandi Maestri dell’architettura contemporanea. Tracciando una parabola in grado di esporre tanto l’architetto quanto l’uomo, permette al lettore di comprendere la gentile radicalità della lezione di Robert Venturi e Denise Scott Brown. Il testo è accompagnato da fotografie e disegni provenienti dall’Archivio Vaccaro
Per arrivare a Roma il giovane Robert Venturi aveva una quantità di ragioni, essendo il padre nato in un paesino dell’Abruzzo, ad Atessa, e la madre figlia di immigrati pugliesi. Ma forse, la ragione principale è che Venturi credeva nella continuità della tradizione e quindi considerava ancora parte della sua cultura quel viaggio in Italia che è stato così importante nell’Europa del Settecento e dell’Ottocento.
Quando nel 1948 ha la prima occasione di viaggiare in Europa, la scelta ricade su Roma e in qualche modo il suo viaggio potrebbe essere paragonato al famoso viaggio di Le Corbusier.
Il soggiorno romano all’Accademia americana è sicuramente uno dei momenti cruciali della vita di Robert Venturi: in due anni, egli ha la possibilità di conoscere Roma in modo approfondito, di innamorarsi della sua aura, e nello stesso tempo anche di dare un’occhiata alla sua periferia. L’avventura romana non è tuttavia l’avventura di una persona disposta a uniformarsi al gusto e alle ideologie dominanti. In Complexity and Contradiction, è in aperta polemica con quelli che sono i valori dell’establishment culturale, per il quale i principali valori dell’architettura consistono nella semplicità e nella corrispondenza a una funzione.
Ciò che Venturi denuncia è il fatto che la modernità, dopo il periodo eroico delle avanguardie, si è quasi addormentata.
Si è addormentata nella ripetizione, e nella pretesa di poter continuare una battaglia anche dopo che questa battaglia era stata vinta.
La seconda guerra mondiale aveva esercitato, sulla cultura europea, una profonda influenza, anche gli architetti si erano accorti che le loro certezze, legate alla ideologia, erano in crisi, in gran parte smentite dalla realtà. Venturi sente dentro di sé di appartenere a quel mondo che nel dopoguerra si pone degli interrogativi drammatici: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? Egli guarda al passato con un atteggiamento assolutamente originale, ha cioè il grande coraggio del suo gusto personale, di guardare le cose che lo interessano indipendentemente dalle ideologie che consigliano di guardare di più una cosa e di ignorare completamente un’altra.
Guardare la storia, analizzare il passato, non è più soltanto un modo per uscire dalle secche di un Movimento moderno incapace di rigenerarsi; è un modo per dare all’architettura un’apertura verso l’umanità, una nuova fonte di contenuti. Per comunicare attraverso l’architettura è fondamentale un mondo di convenzioni, è necessario potersi basare su qualcosa che appartiene alla memoria collettiva, e quindi non è soltanto presente in un gruppo di persone particolarmente istruite. Venturi si sforzava di vedere delle opere famose come i palazzi italiani dal punto di vista della memoria collettiva: che cosa può ricordare una persona qualunque, che non sia un architetto, di fronte a questa diversità e allo stesso tempo a questa apparente ripetizione?
Sono immagini volutamente infantili e secondo me sono una rivelazione del profondo desiderio di Venturi di immedesimarsi, di vedere la realtà attraverso gli occhi non delle persone che hanno lavorato nel campo dell’architettura, ma delle persone che comunque hanno diritto di cittadinanza come gli altri.
Ricordo di aver parlato con Aldo Rossi dell’importanza di questo suo atteggiamento e lui era completamente d’accordo.
Naturalmente, l’indagine di Venturi si sofferma anche su personaggi gloriosi nei confronti dei quali non ci sono obiezioni da fare: nel libro emerge il suo desiderio di celebrare sia Michelangelo, sia Palladio, sia Borromini, alla luce di quello che si potrebbe definire manierismo all’interno della loro opera.
Tuttavia, quando gli chiesi di fare un disegno in omaggio a Borromini per il quadricentenario della sua nascita, nel 1999, Venturi mandò all’esposizione un disegno che non rappresentava un’architettura, ma un vero rapporto personale attraverso la serie di termini scelti: lirical, profound, generic, original. Perché Venturi amava tanto San Carlino? Perché è piccola e grande, moderna e antica, centrale e longitudinale; contiene in se stessa tante contraddizioni e la sua estrema complessità si trasforma miracolosamente in semplicità.
Tra Roma e Las Vegas Venturi ha stabilito una parentela che a noi può sembrare paradossale, ma che lui ha vissuto intensamente: “La nostra generazione ha scoperto Roma negli anni Cinquanta.
Lo spazio esterno delimitato e la scala urbana raccolta furono una rivelazione. Una rivelazione entusiasmante per quelli di noi che erano vissuti in un tessuto urbano di strade vaste e mal delimitate e di grandi parcheggi.
A Roma abbiamo imparato molto sullo spazio, ma la qualità urbana che stavamo cercando sarebbe derivata dallo spazio e dalle insegne. Andare a Las Vegas è stato indispensabile per comprendere la lezione di Roma e includere il simbolismo nella nostra definizione di architettura.
Ma forse negli anni Sessanta non avremmo potuto apprezzare Las Vegas compiutamente, se non avessimo tanto amato Roma negli anni Cinquanta”.
Molti degli edifici costruiti da Venturi nella sua maturità sono un ossequio alla tradizione e, allo stesso tempo, un esplicito tradimento di alcuni caratteri della tradizione. Il rapporto di Venturi con la storia è un rapporto di familiarità, egli è convinto che questi uomini, di cui ha conosciuto le opere, possano aiutarlo a capire il mondo in cui viviamo.
L’unica ideologia a cui Venturi ha reso omaggio durante tutta la sua vita è l’ideologia della libertà, poter guardare le cose di questo mondo in modo completamente libero. Egli è uno dei grandi protagonisti del nostro tempo, che non ha vinto la sua battaglia, anzi ci lascia in eredità la grande responsabilità di restituire l’architettura alla sua storia, di vedere la storia dell’architettura come un continuum, di cui la modernità costituisce sicuramente un episodio straordinario, ma che ha bisogno di riconquistare questa meravigliosa vitalità che viene dalla continuità.
“Il principale lavoro dell’architetto”, scrive Venturi, “consiste nell’organizzare un insieme unico partendo da elementi convenzionali, introducendo giudiziosamente elementi nuovi quando gli antichi si rivelano impropri”, e aggiunge, “se egli utilizza le convenzioni in modo non convenzionale, se egli dispone oggetti comuni in modo non comune, egli cambia il loro contesto e può anche utilizzare un tipo consolidato per ottenere un effetto nuovo.
Degli oggetti familiari posti in un contesto non familiare sono percepiti come oggetti nuovi più che antichi”. Questo scavo nei meccanismi di comunicazione tradizionali dell’architettura serve a Venturi per mettere in rilievo quale impoverimento abbia provocato la rinuncia del modernismo ortodosso a quel bagaglio di convenzioni che costituivano il lessico tradizionale e quale rilancio può produrre nella disciplina il ritorno a un repertorio di forme che appartengono all’esperienza visiva più comune, senza distinzione di epoca e di stili.
Un filosofo americano, Henry Adams, alla fine del secolo scorso scrisse che Roma, nella prima metà dell’Ottocento, era seducente oltre ogni possibilità di resistenza. La definì “il vizio più violento del mondo” e aggiunse che era il posto peggiore per insegnare a un giovane del XIX secolo quello che avrebbe potuto fare nel XX.
La cultura architettonica moderna, nel suo momento eroico che coincide con il periodo fra le due guerre, avrebbe sottoscritto senza riserve il giudizio di Adams, considerando Roma una città che aveva esaurito il suo compito storico di centro di diffusione della cultura classica e poteva servire solo come modello di ciò che non si doveva più fare. Robert Venturi, scrivendo nel 1966 Complexity and Contradiction, ha dimostrato invece che Roma poteva ancora rivelarsi fonte di insegnamento prezioso e quindi luogo ideale per la formazione di un giovane.
E ciò che ora è più importante, ha individuato la lezione di Roma non tanto nella grandiosità eroica di alcuni suoi monumenti più celebrati, ma nella complessità, ambiguità e contraddittorietà del suo tessuto quotidiano in cui i monumenti assumono il loro vero significato in virtù del contesto che li circonda. Benedetto Croce sosteneva che ogni storia è storia contemporanea; Robert Venturi lo ha dimostrato, scoprendo in Roma una lezione completamente diversa da quelle che altre generazioni ne avevano tratto, offrendoci una chiave di lettura attuale che potrebbe essere preziosa non solo per studiare la città, ma anche per cambiarla in modo consono sia alla sua vocazione storica sia alle esigenze dell’uomo contemporaneo.
Denise Scott Brown riconosce chiaramente nella prefazione di A View from the Campidoglio, il libro che raccoglie i suoi scritti e quelli del marito, che l’aver “imparato da Roma” è stato indispensabile passaporto per “imparare da Las Vegas”.
“Forse” ha scritto Denise “abbiamo avuto solo un’idea. Una persona nella sua vita può essere felice di aver avuto anche una sola idea, noi abbiamo preso le nostre a Roma, le abbiamo confrontate con Las Vegas, riportate di nuovo a Roma”, levigate e lucidate, “rispetto a un insieme di progetti esigenti, attraverso parole e disegni e in rapporto ai movimenti sociali e alle correnti intellettuali che hanno seguito i tumulti degli anni Sessanta”.
Leggendo Las Vegas attraverso Roma e Roma attraverso Las Vegas, Robert e Denise ci hanno aiutato a riappacificarci con l’epoca in cui abbiamo vissuto e viviamo, a smettere di rimpiangere anni eroici che forse non torneranno più e a batterci per arrivare in questo nuovo secolo con un’idea di architettura meno ambiziosa forse di quella dei nostri padri rivoluzionari, ma capace di migliorare in modo più concreto e verificabile, anche se di poco, la vita degli uomini.







