Installazione The Songyang Story

‘Post scriptum’ alla Biennale Freespace

Testo di Kenneth Frampton

n.3 novembre/dicembre 2018

Dopo gli interventi di Jacques Lucan e Marco De Michelis, apparsi negli scorsi numeri, abbiamo chiesto a Kenneth Frampton di commentare per noi la Biennale di architettura 2018. Premiato con il Leone d’Oro alla carriera, il celebre architetto e critico tira le somme, a posteriori, della grande mostra Freespace, diretta quest’anno da Yvonne Farrell e Shelley McNamara. Concentrandosi in particolare su tre progetti esposti negli spazi dell’Arsenale, Frampton delinea un quadro estremamente vario, nel quale alle numerose e diverse condizioni socio-economiche, geopolitiche e climatiche del mondo contemporaneo corrispondono altrettanti approcci alla pratica dell’architettura.

Essendo stato io stesso premiato con il Leone d’Oro alla carriera alla 16. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, curata da Yvonne Farrell e Shelley McNamara sotto il titolo di ‘Freespace’, devo confessare che dei tre giorni che ho trascorso con mia moglie alla mostra conservo un ricordo piuttosto confuso. Ciò è dovuto non solo ai numerosi ricevimenti pubblici a cui siamo stati invitati, ma anche agli spontanei ritrovamenti di ex colleghi e amici e, soprattutto, agli incontri casuali con vecchi studenti e lontane conoscenze che hanno inevitabilmente rallentato il nostro avanzare attraverso la Biennale e la città. 

Non è tuttavia per questo meno travolgente sfogliare, a posteriori, il catalogo di 560 pagine della mostra, il quale ci dà l’impressione che la pratica architettonica sia oggi a livello mondiale così varia, che non si possa più utilizzare il termine ‘architettura moderna’ per indicare un unico modus operandi – né come processo, né come risultato finale particolare – tale è ormai la diversità delle mutevoli condizioni socio-economiche, geopolitiche e climatiche che accompagnano la creazione dell’ambiente costruito. Così, del mio incontro con le installazioni selezionate che si susseguono ai due lati delle Corderie dell’Arsenale, ho scelto tre opere che, per varie ragioni, si sono impresse nella mia mente come indicatori positivi della situazione attuale della pratica dell’architettura a livello mondiale. Queste opere non sono particolarmente esemplari in termini di metodo, ma danno piuttosto prova di situazioni di partenza diverse così come di punti di vista distinti riguardo alle promesse e ai limiti dell’architettura. 

La prima tra queste opere consiste nel tocco leggero e memorabile del giovane gruppo cinese DnA_Design and Architecture, guidato dall’ispiratrice figura creativa di Xu Tiantian. Pur avendo sede a Pechino, DnA ha finora lavorato soprattutto nella remota e montuosa regione di Songyang, dove gli architetti sono stati impegnati in una serie di interventi, che vanno da simbolici padiglioni vuoti costruiti ai margini di una piantagione di tè, alla cosiddetta ‘Brown Sugar Factory’, che hanno progettato e realizzato per il villaggio di Xing, situato sulla pianura centrale del fiume Songying. Si tratta di un grande capannone metallico che per due mesi all’anno gioca un ruolo centrale nell’economia del villaggio basata sul commercio dello zucchero ma che, nei mesi restanti, funge da principale spazio comune per i suoi cittadini. È importante notare che l’approccio dello studio DnA considera la concezione di un programma praticabile per il recupero di un villaggio e il persuadere la comunità a realizzarlo come compiti preliminari da portare a termine prima di lavorare alla progettazione dell’intervento. Il secondo, eccezionale, studio presentato a Venezia è stato quello di Niall McLaughlin, che negli ultimi 25 anni ha lavorato con tutta tranquillità a Londra e che è forse l’unico studio maestro nelle costruzioni in legno che si può trovare oggi nel Regno Unito, come testimonia compiutamente il suo recente ampliamento del Worcester College a Oxford. Infine, il mio terzo memorabile momento è stato l’incontro con l’opera completa in tre volumi dell’illustre studio dublinese di Shane de Blacam e John Meagher. Questi, con il loro caratteristico senso di discrezione, si sono limitati a esporre tre bellissimi volumi unici delle loro opere, tra cui spicca, tra gli altri capolavori tettonici, il cosiddetto Wooden Building di sette piani, eretto a Temple Bar, Dublino; un’opera che combina un rivestimento in cornici di legno con alte pareti in mattoni dalle spesse fughe di malta. Il primo di questi volumi è dedicato alla più grande opera realizzata dallo studio, il Cork Institute of Technology, mentre il secondo presenta una struttura di uffici prismatici a sei piani, incredibilmente ‘classica’ e con una facciata in pietra, eretta nel centro di Dublino all’incrocio tra Earlsfort Terrace e St. Stephen’s Green. Il volume finale è riservato all’ampia gamma di commissioni che lo studio ha ricevuto negli ultimi anni, passando da un ristorante a un piano con facciata in pietra nell’isola di Aran alle case moderne e ben proporzionate costruite nelle Isole Baleari. Nel complesso, al di là di questa variazione, aleggia sempre l’ideale di bellezza positiva definito da Claude Perrault: simmetria, precisione di esecuzione e ricchezza di materiali.

Installazione The Songyang Story
Kenneth Frampton Leone d’Oro
Veduta The Songyang Story
Veduta The Songyang Story
Plastico Shimen Bridge
Níall McLaughlin Architects, Presences
Níall McLaughlin Architects, Presences
Níall McLaughlin Architects, Presences, Plastici in legno
De Blacam & Meagher Architects, Freespace Circle
De Blacam & Meagher Architects, Freespace Circle
De Blacam & Meagher Architects, Freespace Circle