Lissoni Milan Design Week 2007

Io e… Boffi

Testo di Piero Lissoni

n.1 luglio/agosto 2018

Il titolo di questa rubrica è stato preso dal format di un programma televisivo della Rai degli anni ’70 a cura di Anna Zanoli con la regia di Luciano Emmer. 
Di volta in volta chiederemo a un designer o a un architetto di raccontarci il particolare rapporto che lo lega a un’azienda. Iniziamo con un appassionato racconto di Piero Lissoni che collabora con la nota azienda Boffi dal lontano 1986 e la considera la sua palestra di vita e di apprendimento al mestiere.

Tra tutte le aziende con le quali lavoro, ho scelto di parlare del mio rapporto con Boffi perché ritengo che sia, in assoluto, il modello più complicato avendo dovuto fare l’art director e preoccuparmi di tutti gli aspetti a 360°; sono contemporaneamente architetto, designer e la persona che, in qualche maniera, prende le decisioni, anche se qualche volta non ha voglia di prenderle. Faccio il grafico, disegno i set fotografici, entro dentro le tecnologie e modifico i modelli di produzione. Insomma credo che Boffi rappresenti l’esempio di relazione più complessa che ho costruito con un’ azienda. Quando ho cominciato a lavorare per Boffi, nel 1986, ero un ragazzo molto giovane, alle primissime armi, ed è stato il mio primo cliente vero; lo dico per dare la misura delle cose. All’epoca avevo solo da guadagnare e nulla da perdere; l’azienda era una delle sorelle del design ma messa in condizioni disastrosissime. Anni prima, avevo lavorato come assistente in alcuni studi milanesi, dove facevo il tiralinee, lo schiavo sacrificale, se possiamo definirlo così. Questi studi avevano collaborato con Boffi per tutta una serie di progetti che, alla fine, non sono andati avanti. Conobbi Paolo Boffi in quella occasione. Finisco quindi l’università e mi ripresento, dopo un anno circa, da Boffi, dicendo: “Io sono sul mercato”. Paolo, ricordandosi di me, mi chiese: “Perché non inizi a fare queste cose?”. E da lì è cominciato tutto. Inizio occupandomi di una serie di cose che forse, per altri architetti, sarebbero potute sembrare quasi offensive. Inizio a lavorare in silenzio su prodotti che erano già a disposizione e, piano piano, li ridisegno, insieme ai primi cataloghi.

Sul finire degli anni Ottanta, Roberto Gavazzi compra la maggioranza dell’azienda e ci ritroviamo in due, giovanissimi, io ancora più di lui. C’è stata da subito una buona intesa tra noi e cominciamo a raccontarci quello che avremmo potuto fare e, da lì, inizia quest’avventura. Un’avventura che ha toccato decine e centinaia di punti. Fare l’art director, in quel caso, ha significato lavorare all’interno di un team elevatissimo con un ufficio tecnico, gli ingegneri di produzione, gli ingegneri delle case che producevano, per conto di Boffi, tutti i vari pezzi così detti outsourcing. In questo contesto, paradossalmente, arriva uno come me, abbastanza ignorante, se posso definirmi così, ma contemporaneamente con la voglia di imparare e di comprendere, e con l’umiltà sufficiente per andare a studiare quelli più bravi. Roberto e io, abbiamo rimodellato tutto il modello produttivo e studiato i tedeschi, che in quel momento erano molto più bravi.  Insomma: studiando di qui, imparando di là, siamo andati avanti abbastanza spediti.

L’incontro con Roberto è stato straordinario e sono stato fortunato, anzi di più, fortunatissimo, a entrare a lavorare in Boffi; senza questa fortuna incredibile che mi è stata servita su un piatto d’argento, oggi, non saprei che cosa sarebbe successo dopo; non ho esattamente la percezione di dove sarei arrivato senza Boffi. Diciamo che Boffi è stato il mio vero trampolino di lancio. Devo dire che abbiamo lavorato tanto, su tutto. Abbiamo lavorato sul modello produttivo, abbiamo cominciato a ragionare sul modello estetico, in che maniera fare i cataloghi e come comunicarli, abbiamo ideato i negozi e, in quel momento, la Boffi non aveva nemmeno gli occhi per piangere. Ma la regola è stata: ‘Pensiamo bene cosa diventerà questa azienda fra dieci anni’ e da lì abbiamo iniziato a lavorare. Ripensare i prodotti in virtù di alcune tecnologie che stavano comparendo all’orizzonte; ripensare, per esempio, i prodotti in virtù di una nuova attitudine nello stare in cucina. Mondi che si sono incrociati, mondi differenti, e io ero lì in mezzo a dirigere il traffico e a imparare perché in quel momento non sapevo niente, o meglio, sapevo pochissimo. Come mi ha sempre ricordato Paolo Boffi, una delle mie migliori qualità è stata quella di essere capace di cucire tutti questi stracci, questi lembi e di dargli l’aspetto di un vestito. Gli art director, in quegli anni, incominciavano a mostrare le loro qualità – penso ad Antonio Citterio con B&B o con Arclinea – sebbene fossero già molto visibili e sebbene prima di noi, ci fossero state personalità trasversali: Mario Bellini, Vico Magistretti, Ettore Sottsass. Per alcuni versi basta pensare solamente a un uomo come Zanuso e alle implicazioni che ha avuto nei confronti di Brionvega, o a Castiglioni e alle implicazioni che ha avuto con tutte le aziende che ha toccato. La figura dell’art director, in realtà, è solamente una questione di forma. La funzione vera era quella di occuparsi di tutto e io ho cominciato a occuparmi di tutto, proprio sull’onda lunga di questa scuola che sto citando. Per quanto mi riguarda, credo che il vero successo di questa storia tra me e la Boffi, sia stato il lavorare sul progetto a 360 gradi, una specie di controllo totale del processo. A volte ci trovavamo a discutere di come mettere i fiori durante le presentazioni, quale fotografo scegliere oppure come lavorare con le luci, con le inquadrature e andavamo in giro a vedere come si muovevano i negozi che vendevano moda nell’illuminare i vestiti. Questo giochino continua ad andare avanti ancora oggi, nel 2018: andiamo a vedere le cose, cerchiamo di imparare e quando qualcuno ci dice di andare a vedere il nuovo negozio di Gucci a New York, ci andiamo e poi di ritorno ne discutiamo, cercando di capirlo a fondo. La cosa bella di tutto questo processo, è che ogni giorno ognuno di noi impara qualcosa e ci scambiamo reciprocamente le informazioni. Per questo tipo di apprendimento non ho mai ricevuto crediti formativi, bisogna dire che sono in debito mortale con l’ordine.

Trovo molto bello che il dialogo tra me e Boffi sia serratissimo; un dialogo cominciato trent’anni fa e che non è ancora giunto al termine, a volte addirittura molto crudo. Non è tutto rose e fiori, ci sono degli scontri anche piuttosto violenti, sempre rimanendo nel lecito, però molto forti, molto duri; questo perché ci sono giustamente delle visioni differenti, io ho una visione, Roberto ne ha un’altra e il team di progetto all’interno dell’azienda ne ha un’altra ancora e alla fine si deve riuscire, in qualche maniera, a farne spuntare solo una su tutte, quindi niente rose e niente fiori.  Sono conversazioni a volte gagliarde. Alla fine arriviamo però a un punto in cui io non so più chi abbia deciso che cosa e chi abbia preso una posizione per che cosa. So che siamo arrivati lì. Mi danno, qualche volta, dei meriti che penso siano sopravvalutati e altre volte, invece, giustamente guadagnati. Alla fine sono comunque messo davanti a una decisone e, più o meno, mi prendo la responsabilità di portare sulle spalle il rischio di questa decisione. Qualche volta ha avuto ragione Roberto a non lasciarmela prendere. Qualche volta le ho prese da solo contro tutti, o quasi, perché, quasi sempre, noi art director veniamo presi come ‘bimbi capricciosi’; che ci può anche stare, anch’io di tanto in tanto ho fatto il bimbo capriccioso, però mi sembra che poi alla fine le cose abbiano funzionato, no?
Oggi, la struttura Boffi è diventata assai complessa rispetto all’inizio degli anni Ottanta. Gli anni iniziali sono stati straordinariamente romantici. Si lavorava di giorno, di notte, di sabato e di domenica, alla vigilia di Natale, tutti molto più legati allo stellone e all’attitudine italica del piacere di lavorare insieme; poi, chiaramente, sono cambiate tante cose nel corso degli anni. Anche semplicemente l’impatto tecnologico ha rimosso questo tipo di approccio, che prima era molto più naïf.  Adesso, quando s’inizia a fare un progetto, si deve capire il ruolo dei robot, per esempio: se ti seguono o se devi inventare una nuova tecnologia. Abbiamo imparato anche, cammin facendo, a porci dei limiti. L’unica cosa che mi manca molto è che quando abbiamo cominciato, eravamo ‘illimitati’, come quando da ragazzo pensi di essere intoccabile e immortale; noi, in quei momenti lì, pensavamo di essere immortali. Adesso stiamo un pochino più con i piedi per terra, per alcuni versi, ma sempre ‘picchiatelli’ uguali:  se dobbiamo far vedere i sorci verdi all’azienda io non mi tiro mai indietro di un millimetro e se domani mattina lo devo fare ti assicuro che lo farò senza battere ciglio, in prima linea.

I tedeschi hanno una grande venerazione e rispetto per quest’azienda. Noi siamo partiti per ultimi, molto negletti, trattati molto male perché eravamo veramente in quel momento un’azienda con tantissimi problemi di sopravvivenza, non era facile. Poi abbiamo cominciato a metterci in scia, abbiamo imparato, qualche volta copiato, com’è giusto che fosse, ma modificando, non in maniera pedissequa come fanno molte presunte aziende o designer, e abbiamo tirato fuori la Boffi che abbiamo oggi e che è in costante evoluzione. Mi piace molto rimarcare che c’è stata un’evoluzione direttamente collegata al livello tecnologico; man mano che inventavamo delle cose ci inventavamo delle tecnologie, o in virtù delle tecnologie abbiamo inventato delle cose. In parallelo, abbiamo lavorato sull’immagine e siamo stati durissimi: abbiamo fatto i negozi di colore grigio scuro quando tutto il mondo non immaginava nemmeno la possibilità di fare queste cose qui e si vedevano solo cucine bianche, cucine bianche e acciaio inox, non c’era nient’altro da vedere. Questo ha voluto dire lavorare nello stesso tempo su tanti elementi. Siamo andati a cercare la maniera di produrre nel miglior modo possibile gli acciai, ci siamo inventati materiali che arrivavano da altri mondi, abbiamo mischiato laminati con legni quando nessuno lo faceva. È come se avessi vissuto, e vivo ancora oggi, una specie di epopea di un centro ricerca continuo e costante.

La gente che ha lavorato con me e la gente con la quale ho lavorato mi ha insegnato tutto quello che so; avevo il piacere di questo insegnamento e da parte mia ho imparato. Lì ti scontri con della gente vera e tutti i falegnami mi guardavano come se fossi un deficiente quando chiedevo loro se era possibile fare una cosa in legno che non era nemmeno pensabile. Allora mi sentivo addosso questi occhi che mi trapanavano, mi stavano dando del deficiente, ma allo stesso tempo erano anche incuriositi dal voler vedere se le cose che  stavo dicendo potevano modificare la loro maniera di fare. Questa è stata una bella lezione perché, alla fine, hanno capito che scemo non ero e mi hanno aiutato molto. Mi hanno insegnato tantissimo e hanno provato anche a fare delle cose pur sapendo che magari non saremmo arrivati da nessuna parte. 

Negli ultimi tre anni, dopo aver discusso insieme, abbiamo preso la decisione di portare De Padova nella struttura. Il tempo corre e ci siamo dati cinque anni per stabilizzarla, per cambiarla, per industrializzarla e cominciare a farla correre con le proprie gambe come faceva un tempo. Siamo al terzo anno di funzionamento dell’azienda e sta andando molto bene. Siamo quindi, già, leggermente in anticipo di due anni. De Padova aveva una allure da grande principessa, una allure da principessa milanese, ma fuori da determinati tipi di ambienti nessuno sa che cosa sia De Padova. Andava bene per ‘i fighetti’ milanesi che ti raccontavano di De Padova, ma quando te la giochi a Düsseldorf o in Canada, ci guardano come se fossimo arrivati con i tamburi dei bantù! È evidente che De Padova permette a Boffi di portare il suo discorso oltre e, in maniera più complessa, sulla questione dell’abitare, dell’abitare gli spazi.

Io sono perennemente in questa duplice veste – di progettista e di art director –  mai sopita e mai controllata, dove può succedere tutto e il contrario di tutto. Come progettista a livello generale, non potendo far mai uscire niente di niente, tento sempre di modificare, di cambiare e di cambiare ancora finché, alla fine, questi non si stufano e dicono: “Bene, con oggi hai finito, basta giocare”. Questa purtroppo è una questione quotidiana. Non è una questione di art direction, non è una questione di progettisti. Èuna questione di realtà. Bisogna mettere in conto che ciascun’azienda è un’azienda a sé, anche se fanno tutte e due divani sono due aziende sempre diverse. Ho sempre qualcosa da imparare e da dover rimodellare, perché non c’è modello intellettuale che ti permette di saltare da una cosa all’altra; c’è una specie di prassi con la quale ci si deve riadattare, questo è cruciale per rimanere sul mercato. Non puoi spostare un modello da una parte all’altra e farlo funzionare; si deve prendere un modello come base di partenza, ma poi lo si deve ridisegnare, di volta in volta, per ciascuna azienda. L’esperienza che ho cominciato con Boffi e continua tutt’oggi, è tutta lì; mi ha insegnato questa specie di applicazione disciplinare. Ho usato una disciplina professionale che però, di volta in volta, viene cambiata, modificata, riadattata, ridisegnata per ciascun cliente. L’unica teoria è il caso per caso. Assolutamente, caso per caso. L’unica cosa che riesco a ripetere con una certa frequenza sono gli errori, e lì riesco a sbagliare in maniera uguale dappertutto. 

Nel campo del design, possiamo dire che non siamo secondi a nessuno. È una nostra caratteristica, che ci contraddistingue. Noi abbiamo imparato tanto dai nostri maestri: Magistretti, Castiglioni, Sottsass, Zanuso, Bellini. Basta pensare all’esperienza americana di Ray e Charles Eames, loro erano le bestie pensanti per conto di Herman Miller e facevano tutto: dalle grandi installazioni, ai film alla fotografia, dalla grafica fino al processo industriale. Noi abbiamo continuato per questa strada e, tutt’oggi, nel 2018, siamo ancora noi gli unici sul mercato. E se qualcuno non è d’accordo, chi se n’importa.

Il testo è tratto da una conversazione tra Piero Lissoni e la redazione, giugno 2018

Piero Lissoni
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