
Per una nuova oggettività
n.6 novembre/dicembre 2019
L’equilibrio tra le soggettività è ciò che caratterizza un buon lavoro d’équipe, raggiunto grazie a un modus operandi e a un’armonia che si stabiliscono tra le persone. Studiospazio, fondato dai fratelli Squassabia e da Tao Baerlocher, ricerca questo punto di arrivo tramite un continuo confronto dialettico capace di restituire al committente un’architettura precisa e adeguata, nella ferma convinzione che l’architetto debba ricercare con consapevolezza un punto di vista condiviso e condivisibile nel quale si concentra la qualità del progetto
Era il 2014 quando abbiamo iniziato a ricevere dei piccoli incarichi e abbiamo deciso di unire le nostre forze e di lavorare tutti assieme, ognuno di noi proveniente da un percorso professionale e formativo diverso. A Mantova è arrivato il primo progetto sul quale abbiamo lavorato come Studiospazio: il Workshop Garage. Sin dall’inizio abbiamo ritenuto importante non chiamare lo studio con i nostri nomi, affinché il progetto non venisse automaticamente associato alla persona fisica, ma potesse al contrario essere collegato a una certa maniera di lavorare, a una sorta di modus operandi. Studiospazio evoca un ‘luogo collettivo’ ideato per poter discutere insieme di architettura e di progetto. Seppur di radice italiana, questa parola ne richiama altre due tedesche a noi molto care: studieren (trad. studiare, esaminare) e spazieren (trad. passeggiare).
Quando iniziamo a lavorare su di un progetto, elaboriamo diverse proposte, all’inizio anche molto schematiche, che puntualmente condividiamo sul tavolo di lavoro attraverso disegni, schizzi, foto di modelli, finalizzati alla discussione. Ognuno di noi elabora delle proposte che si concentrano su di un aspetto specifico del progetto, su qualcosa che in quel momento si pensa possa essere rilevante, dal dettaglio di una finestra fino all’inserimento urbanistico dell’edificio. Ogni proposta è discussa in maniera precisa e approfondita in riunioni collegiali, due o tre volte a settimana, dove ognuno mette sul tavolo il frutto delle proprie riflessioni. Così facendo tutto si moltiplica e ogni proposta si rimette in discussione; dopo questi incontri, che possono durare diverse ore, si ricomincia a lavorare di nuovo, ma questa volta in maniera più consapevole. Le proposte iniziano a contaminarsi in un processo che può durare qualche settimana, o addirittura qualche mese; è un metodo interessante ma molto dispendioso in termini di tempo, che ci permette tuttavia di acquisire la consapevolezza necessaria per immaginare il progetto, per scoprire ciò che è importante per la vita degli utenti, fino alla percezione dell’edificio all’interno della città o del contesto.
Non partiamo mai da un’idea a priori, ma questa scaturisce attraverso un serrato confronto con quelle che sono le condizioni del progetto. In questa fase iniziale del lavoro la discussione ci permette di riflettere oggettivamente, trascendendo dall’individualità di ognuno di noi: attraverso la ‘parola’ riusciamo ad acquisire una sorta di oggettività andando oltre il nostro sentire momentaneo. L’ambizione ultima è quella di riuscire a trascendere l’area personale per giungere a un risultato il più possibile oggettivo, nell’intento di acquisire una forte consapevolezza delle intenzioni del progetto.
Più che dei creativi ci sentiamo, per così dire, degli scienziati: attraverso questo processo, piuttosto lungo e articolato, andiamo avanti e indietro continuamente, fino a quando acquisiamo consapevolezza di quello che può essere veramente decisivo, in modo analogo a quanto fa uno scienziato ricercatore. Quando inizia un progetto non sappiamo mai che direzione possa prendere, e questo è sicuramente uno dei punti di forza di Studiospazio: mettiamo da parte le nostre convinzioni per avvicinarci al progetto con molta libertà e con altrettanta apertura. Oggi siamo ancora in una fase di mutamento continuo, non abbiamo forti certezze, abbiamo molte cose che ci interessano, però il fatto di ripartire sempre da zero, con le molteplici proposte, ci porta a confutare le nostre sicurezze e inevitabilmente scopriamo anche noi, con un po’ di sorpresa, quello che effettivamente è il risultato del nostro lavoro.
Quello che facciamo attraverso la discussione continua di diverse proposte, è tirare fuori tutte le idee dalla nostra testa fino a quando le nostre menti rimangono ‘vuote’, senza nessuna idea. Nella filosofia giapponese solo nel momento in cui la mente è vuota, è libera di pensare, perché tutte le idee sono state verificate e solo allora si è veramente liberi di pensare al ‘progetto’ in maniera oggettiva, strutturata e profonda, e quindi di non essere imprigionati dai nostri preconcetti; questa secondo noi è la miglior maniera di pensare all’architettura, preservandola dai punti di vista personali, che provengono da varie scuole, con formazioni e impostazioni culturali diverse, che non devono prevalere. La discussione, prima dell’atto creativo, è indispensabile per affrontare e sviluppare un progetto, e fino a quando tutti gli aspetti che emergono non sono integrati sul piano concettuale dell’idea continuiamo a cercare; non crediamo in un processo lineare come a volte viene insegnato a scuola. Usiamo al contrario un processo circolare attraverso il quale facciamo emergere i vari aspetti che verifichiamo successivamente attraverso piante, prospetti, sezioni e modelli.
Ci rendiamo conto che troppo spesso l’architettura oggi è fatta di immagini consumate molto velocemente; quello che cerchiamo di realizzare invece è un’architettura più complessa, che possa essere letta a diversi livelli. L’architetto oggi potrebbe avere un ruolo importante nell’educazione della società, soprattutto al momento attuale: nella consapevolezza della
complessità di questa sfida abbiamo deciso appunto di lavorare in Italia. Crediamo che il nostro compito sia quello di capire la realtà e cercare di esserne espressione, e al contempo quello di portare avanti un discorso architettonico, in un certo senso orizzontale, connesso con il panorama architettonico generale. Per questo la nostra responsabilità – che in parte è anche un’ambizione – è chiara: siamo una piccola goccia in un grande mare, dove cerchiamo di educare in maniera molto silenziosa, attraverso il nostro
lavoro. In ogni progetto dobbiamo essere estremamente positivi altrimenti tutte le contraddizioni con cui ci confrontiamo, a partire dal committente che sa già come vuole la casa, fino al vasto ammontare di tempo che dedichiamo a ogni lavoro, sembrerebbero non avere nessun tipo di senso.
Pensiamo però che attraverso questo processo molto complesso, ci sia la possibilità di dare un’altra direzione alle cose – anche grazie a tutti i collaboratori che passano nel nostro studio, studenti e non – per cambiare quella che è la realtà dell’architettura oggi, soprattutto in Italia. Intendiamo come una missione contribuire a questo cambiamento che richiede tutte quante le forze a nostra disposizione, per capire, interpretare e scontrarci con quella che è la realtà delle cose e integrare positivamente tutti i fattori con cui il progetto si confronta, talvolta anche discordanti come committente, soprintendenza, burocrazia, tempistiche ecc. Cerchiamo di fare la nostra parte, non partendo da un punto di vista teorico, ma partendo dal progetto, attraverso il quale ci esponiamo nel parlare proprio di architettura, attraverso l’architettura.
Quello che è veramente speciale oggi, parlando di globalità, è che l’architettura da un lato è strettamente legata a una specifica cultura, ma dall’altro trasmette un senso di percezione generalizzabile. Quello che guardano gli studenti italiani, non è molto differente da quello che guardano gli studenti svizzeri, si relaziona però con il bagaglio di ognuno di loro, e di conseguenza l’architettura può colmare questa distanza e collegare una cultura globale alla percezione locale del singolo.
Il testo è tratto da una conversazione tra Samuele Squassabia, Tao Baerlocher ed Eugenio Squassabia con la redazione de l’architetto




















