Modello museo Z33 Hasselt Belgio

Per un nuovo abitare

Testo di Francesca Torzo

n.3 novembre/dicembre 2018

La relazione tra i materiali, la ricerca di tonalità adeguate, la consuetudine del fare – coniugata a una conoscenza dei luoghi e ai riti della vita odierna – sono alcuni degli strumenti messi in campo da Francesca Torzo per indagare il mondo dell’architettura e dell’abitare contemporaneo.

La mia attività di architetto è iniziata nel 2008, perché ho avuto l’occasione di portare avanti degli incarichi, chiaramente modesti. Non si inizia dal nulla. Ho avuto un percorso variegato di studi e di esperienze professionali, girovago in Italia e all’estero mossa da una grande curiosità. Degli studi a Venezia ricordo con passione e riconoscenza le conferenze sulla storia dell’architettura e sulla città a Ca’ Tron e Palazzo Badoer e ancora sorrido pensando alle lunghe notti trascorse all’Asac. Durante l’anno in cui definivo il tema di ricerca del diploma di laurea ho avuto la fortuna di essere invitata da Peter Zumthor, conosciuto durante un workshop a Padova e in seguito mio relatore insieme a Umberto Tubini, Jürg Conzett e Miguel Kreisler, a candidarmi per la prima edizione della borsa di studio Borromini a Mendrisio. Ho presentato prima la tesi all’Accademia di architettura e poi a Venezia. Sono arrivata ai Tolentini come un muratore con modelli in pietra e legno in tutte le scale e lì poi ho ottenuto la mia ‘licenza per costruire’. Negli ultimi anni ho avuto il privilegio di potermi dedicare con passione all’insegnamento in diverse realtà universitarie e dalla pluralità di esperienze sembra emergere una struttura didattica diversa da quella che ho vissuto da studentessa. La polverizzazione degli esami in numerose micro-consegne e le trattative per i crediti sembrano comunicare il messaggio: “Se fai i passi educatamente, uno dopo l’altro, ti verrà garantito qualcosa”. La riduzione dell’esercizio di scelta e una certa meccanizzazione dei percorsi didattici penso ostacolino la richiesta di responsabilità che si indirizza a uno studente nel formulare un percorso di studio che esprima un interrogativo individuale di fronte a questo mondo, complesso e sorprendente. Credo che non interrogarsi sia pericoloso. Alla fine, forse, l’unica tutela che abbiamo in vita è la costruzione di competenze, fondate su una solidità di pensiero, che ci permettano di formulare domande e argomentare posizioni.

Il momento che stiamo vivendo offre grandi possibilità, proprio per le fragilità che presenta, e  quindi parlare di responsabilità, dell’assumersi responsabilità, anche a volte in disaccordo con l’assetto esistente, è possibile e necessario proprio per essere parte di una società viva. Tornando al mio lavoro – dove ho sempre un approccio un po’ sperimentale essendo figlia di un fisico e di un’insegnante di lettere e storia – la ricerca progettuale ha seguito un doppio registro che parte dall’azzardo di un’ipotesi e si sviluppa nel costruire un esperimento plausibile, proprio come allestire un tavolo da laboratorio. 

Per me l’inizio di un lavoro è un paniere complesso di variabili, non c’è un meccanismo predeterminato. Vi è un contesto fisico che è la topografia, la consistenza del luogo, che si combina a un contesto immateriale – ossia come gli uomini nei secoli vi si sono insediati e vi hanno abitato – in un sistema di relazioni molto più complesse di una semplice parametrizzazione o lettura figurativa di un contesto. Accanto vi è un insieme di dati – budget, programmi, tempi – che porta con sé una serie di consuetudini o capacità tecniche da considerare. Ancora vi è una parte di nuovo immateriale, che chiamo cultura, ed è quell’insieme che va dipanato di desideri e ricordi, il più delle volte inconsapevoli, di una committenza. Come architetto si ha sempre un cliente e c’è sempre un costruttore; ci sono anche gli ‘invisibili’, i cittadini che hanno in eredità il costruito. L’inizio di un lavoro è una lettura articolata che si traduce con strumenti inventati di volta in volta, per poter offrire una narrativa adeguata alla storia che si vuole raccontare all’interlocutore. Sono acquerelli, incisioni, inchiostri, matita, cad, excel, mosaici, modelli; cambia sempre. Porto con me il consistente senso del limite di un lavoro e in qualche modo una paura di tradire un’aspettativa di vita, visione ed esperienza; per questo molto lavoro viene investito nel verificare la fattibilità e solidità di un pensiero nelle fasi preliminari di un progetto. Penso sia fondamentale immaginare e costruire da subito gli strumenti che si dispiegano per garantire la tutela di una visione a cui ci si riferisce, in prima battuta con i committenti e in seconda battuta con il costruttore, sapendo che non sono mai procedimenti chiusi ma ci vuole sempre un margine di negoziazione o accoglienza. Questo pragmatismo umanista si riflette nuovamente sulla didattica, dove la ricerca si concentra su due temi principali, l’abitare e la città.  La domanda sull’abitare nasce dall’osservazione che i bandi di concorso di housing sono oggi inadeguati, perché chiedono programmi di abitare minimo, per moduli standard di stanze all’interno delle quali ognuno inventa, magari con il kit IKEA, la vita che vorrebbe vivere. In questi programmi manca una riflessione sulla vita reale. Tra le persone che incontro, studenti, amici o colleghi, pochissimi abitano nella città dove sono nati e dove la loro famiglia vive; i più abitano in una nazione per necessità. Esiste un tema oggettivo di ospitalità da affrontare, dove i territori di privatezza e condivisione sono forse da reinventare. Viviamo un tempo di mobilità a scala di massa; viaggiamo con la carta di identità, il portafoglio e poco più in tasca. Tuttavia, se gli spostamenti sono con bagaglio leggero, rimaniamo pur soggetti ad accumuli, e così si moltiplicano le agenzie di spedizioni per libri, vestiti e chissà cos’altro. In casa servirebbero più spazi a uso magazzino accessibili al piano, mentre la tendenza attuale è di offrire una cantina nell’interrato o di augurare buona fortuna nella ricerca di un deposito altrove in città. Un essere umano ha bisogno del proprio ‘lessico familiare’ accanto. Un’altra questione riguarda l’economia, oggi molto fragile; siamo tutti soggetti a possibili repentine variazioni del nostro status, per cui può essere che dall’oggi al domani una persona si ritrovi con la necessità di affittare parte della propria casa.

Ancora dovremmo riflettere sulla velocità con cui le famiglie d’oggi si riconfigurano, in ragione di un maggiore senso di autonomia delle persone e anche della accessibilità e accettazione sociale del divorzio, oscillando tra rapporti di abitante e nucleo familiare tra 1/5-1/1 o anche 1/10 considerando le nuove costellazioni plurifamiliari. Le case saranno dunque un po’ come le auto, ognuno avrà la sua casa e bisogna allora immaginare una nuova organizzazione, non di pareti mobili ma pensata spazialmente, per rispondere alla domanda: di cosa ho bisogno per vivere bene? 
Sul secondo tema, la ricerca sulla città, la domanda è come costruire un dialogo con la città che esiste, quella che si è costruita nei secoli e che abitiamo. Con gli studenti di Bergen stiamo studiando una zona centrale di Genova, ipotizzando di reinterpretare una ‘magnifica’ speculazione edilizia del Cinquecento, via Garibaldi. L’ipotesi di dialogo si fonda sul riconoscere una ‘grana’, parola non ancora precisa ma con cui vorrei suggerire un’analisi non solo della misura in sé dei manufatti architettonici che formano la città quanto un’analisi dell’insieme complesso di relazioni misurabili tra gli edifici che si sono costruiti uno accanto all’altro, uno sopra l’altro nel tempo. Ci vuole un’accettazione e un riconoscimento della realtà, dobbiamo partire da là, per cui penso che non ci sia bisogno di formulare la città del futuro, anche se amo molto le visioni di utopia o distopia narrative. Penso che la città, inevitabilmente per essere tale, debba mescolarsi con tutto quello che c’era prima e negoziare, adattarsi.

Se il gioco è allora di appartenere a un luogo, quali sono le regole di questo gioco? Se è di figura, forma o materiale potremmo chiederci se le prescrizioni delle soprintendenze e degli uffici comunali siano adeguate se potrebbero essere discusse e riformulate. Se invece la regola del gioco è quella dell’osservare, da un punto di vista parametrico, fenomenologico e culturale, la città, allora forse dovremmo ogni volta fare la regola, invitando interlocutori pubblici e attori culturali a riflettere caso per caso, ossia a inventare ogni volta la regola.

Il testo è tratto da una conversazione tra Francesca Torzo e la redazione de l’architetto, ottobre 2018

Crediti
Oggetto
N02 – CASA DUE, SORANO, ITALY
Progetto
Francesca Torzo
Localizzazione
Sorano, Italia
Fase di progetto
2006-2010
Committente
Privato
Strutture
ing. Stefano Debiasi, Padova
Imprese
Maurizio Crociani, Domenico De Feo, Sorano, Roma – Marmi Galli srl, Verona – De Rossi e Fratelli Lodoli, Mestre-Venezia
Dimensioni superficie
75 m² + giardino 300 m²
Costo
350.000 euro
Oggetto
R08 – GREEN CRANE HOUSE, SORANO, ITALY
Progetto
Francesca Torzo
Localizzazione
Sorano, Italia
Fase di progetto
2006-2009
Committente
Privato
Impresa
Maurizio Crociani, Sorano Oberrauch gmbh, Bolzano
Dimensioni superficie
164 m² + giardino 50 m²
Costo
286.000 euro
Modello museo Z33 Hasselt Belgio
Allestimento Mostra Architettura Venezia Francesca Torzo
Pianta Mostra Architettura Venezia Francesca Torzo
Progetto Mostra Architettura Venezia Francesca Torzo
Casa Sorano Toscana Francesca Torzo
Casa Sorano Toscana Francesca Torzo
Fasi costruzione casa Sorano Francesca Torzo
Prospetti Casa Sorano Francesca Torzo
Spazi Casa Sorano Francesca Torzo
Spazi Casa Sorano Francesca Torzo
Balcone Casa Sorano Francesca Torzo
Assonometrie Casa Sorano Francesca Torzo
Pianta Casa Sorano Francesca Torzo
Casa Sorano Francesca Torzo
Fasi Casa Sorano Francesca Torzo
Pianta Casa Sorano Francesca Torzo
Pianta Casa Sorano Francesca Torzo
Sezione Casa Sorano Francesca Torzo
Veduta Casa Sorano Francesca Torzo