
Lo spazio è un racconto
n.6 novembre/dicembre 2019
Il tema dello spazio invita al confronto, in questo numero, l’architetto romano Stefano Cordeschi e l’architetto svizzero Valentin Bearth. Entrambi, attraverso il racconto delle proprie esperienze personali e interpretative dello spazio, espongono un punto di vista che va oltre il concetto attinente al solo significato fisico del termine.
Questo è descritto da un lato come “racconto da preservare” e quindi indissolubilmente legato al nostro sentire e a ogni specifica situazione progettuale, dall’altro come “traduzione di un progetto di vita” che attraverso l’architettura conferisce dignità e rispetto all’esistenza umana, rappresentando comunque in maniera fisica un’esperienza collettiva che si sedimenta nell’opera costruita
Ero poco più di un ragazzo quando andai a visitare la casa di Mel’nikov a Mosca. Lui, molto anziano, ci viveva ancora. Più tardi andai a trovare Ridolfi nella sua casa alle Marmore. I due edifici, progettati per se stessi e in età avanzata, sono caratterizzati da una geometria precisa in pianta. Due cerchi intersecati il primo, un poligono stellato a dieci punte il secondo. All’interno una distribuzione disinibita e quasi farraginosa (sono case inarredabili) contraddice la precisione dell’involucro. Emerge con chiarezza che la geometria, usata come strumento di governo dello spazio, è importante ma non determinante. Quello che, invece, appare evidente è il desiderio di vivere ‘a modo proprio’ liberandosi degli schemi tipologici noti. La qualità spaziale dei due edifici non dipende dalla geometria dell’impianto decisa dagli autori ma dallo spirito con il quale sono stati concepiti, dal racconto delle loro vite. Nicola mi chiede di parlare dello Spazio. Lo farò limitandomi volutamente nei confini dello spazio fisico e di quel poco che sono riuscito a capirne occupandomene, nel bene come nel male, per anni con il mio lavoro.
Lo spazio fisico, qualunque esso sia, da quello della città a quello della stanza, è sempre e comunque teatro di un agire che è nel nostro mandato comprendere. È un campo di traiettorie in buona parte imprevedibili. La percezione dello spazio fisico è, inoltre, indissolubilmente legata al nostro sentire ed è influenzata da molti fattori: la luce, il colore, il movimento, il rumore e persino la temperatura. Lo spazio non esiste. Esistono le cose che accadono in un determinato luogo percepite da chi in quel luogo agisce.
Lo spazio è, quindi, qualcosa di soggettivo anche se la sua configurazione fisica finale può essere misurata e avere, pertanto, carattere di oggettività. Quando parlo di ‘teatro dell’agire’ non mi riferisco agli aspetti funzionali che hanno determinato i caratteri tipologici di uno spazio. La funzione, si sa, è transeunte e la Storia ci dice che spazi pensati per uno scopo hanno finito per assolverne un altro. Intendo, invece, le caratteristiche che uno spazio deve avere per stimolare l’immaginazione e quindi anche tutti gli usi alternativi pensabili. Il nostro mestiere non è quello di dare definizioni, quanto quello di trasformare la realtà fisica dopo averla compresa. Il concetto di spazio, dal punto di vista operativo, è il più sfuggente a meno che non lo si voglia banalizzare come vuoto tra i solidi. Servirebbe la sensibilità di un regista, di un direttore d’orchestra o forse di uno scrittore. Il nostro strumento, prima o poi, è il disegno. Ma non subito. Prima di utilizzare il disegno va, dunque, capita la ‘trama del racconto’ e le possibili interferenze con i probabili attori. Il disegno è uno strumento rigido, va usato con cautela, può portare alla ripetizione di un gesto già fatto, al rifugiarsi in formule note e rassicuranti.
Lo spazio va prima immaginato ed è meglio farlo camminando, viaggiando, senza una scrivania davanti.
Ho già scritto in altra occasione: “[…] è dunque necessario immaginare ‘a secco’, senza supporti, e lo sforzo è grande, non devi perdere i pezzi, li devi tenere insieme solo pensandoli per un bel po’. Non è facile perché le visioni hanno, a volte ma non sempre, contorni sfumati e aree indefinite. Non devi però ‘capitalizzare’ subito fissando qualcosa. Devi lasciare che l’immagine galleggi […] c’è un modo per non perdere la tua visione, per non farla dissolvere, ed è quello di inventarci una storia dentro. Storia di persone, di atti, di percezioni sonore, tattili, olfattive […]”. Parlavo del disegno, ma si adatta perfettamente all’argomento in esame. Cosa sarebbe lo spazio ipogeo del monumento alle Fosse Ardeatine senza quella sensazione di peso immane sulla testa? E la foresta di cemento di Chandigarh senza la consolatoria sorpresa del fresco entrando? È possibile separare lo spazio severo della Sagrestia Nuova dalla presenza oluttuosa del corpo dell’Aurora?
Lo spazio è dunque racconto, dramma o festaa seconda dei casi. Nel progetto per il Cimitero Monumentale di Ciampino (ero giovanissimo!) immaginavo uno spazio infinito, mai concluso, misurato dall’iterazione della colonna e dai passi del visitatore come in un disegno di Buzzati. Nell’edificio per Bruxelles le forme neoclassiche smussate e fanées ricomponevano uno spazio urbano omogeneo e discreto rinunciando quasi alla propria identità. Molti anni più tardi, a Roma, nelle periferie estreme laddove la città finisce senza preavviso, abbiamo realizzato edifici perentori, capaci di reggere da soli uno spazio urbano inventato o solo desiderato. Era già molto.
Nei progetti per la sistemazione delle aree basilicali a Roma, in occasione del Grande Giubileo del 2000, abbiamo spazzato via tutto quello che il tempo aveva depositato intorno ai monumenti. Piccoli deserti lapidei privi di indicazioni d’uso la cui unica funzione era quella di generare silenzio. Lo spazio interno dei teatri romani è denso di figure: tende d’acciaio a Tor Bella Monaca, stalattiti lignee al Mattatoio. Oggetti che si notano e brillano, come gli stucchi dorati e i velluti rossi della Fenice. Distraggono dalla rappresentazione ma fanno sentire importante chi guarda.
Nelle case di Shanghai la cosa più importante era costituita dai riflessi del canale attraverso i carabottini lignei delle logge e, nella torre bidimensionale della Magliana, il dialogo a distanza con il sogno interrotto dell’Eur.
Ogni volta c’è un racconto, non uno stile, da preservare. Una interpretazione dello spazio e del mandato che cambia ogni volta. Un’avventura. Oltre a quelli felicemente approdati in cantiere, molti sono, purtroppo, i progetti non realizzati. Dal piano per il Centro Direzionale di Napoli al grande edificio delle Federazioni Sportive per le Olimpiadi mai fatte. Dal Piano di recupero di via Giulia al primo masterplan per il nuovo stadio della Roma. Dal progetto per l’area dei Mercati Generali a Roma (si farà?) alle stazioni della metropolitana B1. Grandi occasioni, almeno per me, naufragate nel penoso guazzabuglio della politica e nei veti incrociati.
Tra questi ce n’è uno minore, quasi inconsistente, che è la sistemazione dell’area circostante il Globe Theatre di Villa Borghese, già realizzato in fondo a una valletta boscosa. Una larga scalinata lignea zigzagante tra gli alberi conduceva a un grande tavolato/foyer tangente il teatro. Gruppi di gradini, qua e là a quote diverse, si prolungavano dalla scala fino a penetrare nei boschetti d’alloro per concludersi con una panca e una luce bassa. Lucciole notturne, luoghi per amanti, mentre sulla scala e nel parterre illuminati si consumava il rito del guardare e farsi guardare.
Lo spazio indefinito del bosco è tenuto insieme da un’idea più letteraria che architettonica, una scenografia per A Midsummer Night’s Dream vissuto e non solo guardato. Un luogo dal quale tornare a casa, di notte, cantando.







