
Le stanze e la crosta terrestre
n.1 luglio/agosto 2018
Partendo dalla ristrutturazione di una casa a Como, abbiamo chiesto ai giovani architetti Giacomo Brenna e Cristiana Lopes di raccontarci la loro storia. Nell’arco della conversazione, abbiamo sviluppato diverse tematiche e considerazioni più ampie riguardo l’architettura.
Le possibilità di una tipologia / appartamento VM a Como
Il committente era un amico con un’esigenza chiara: necessitava di un locale in più da utilizzare come zona di lavoro. La nostra prima preoccupazione, in una tipologia assai rigida come quella con la quale ci siamo trovati a lavorare, tipica degli anni Sessanta, riguardava come riuscire ad aggiungervi uno spazio senza dividere il locale esistente. Roger Waters, bassista dei Pink Floyd, cantava in Money: “Spesso penso che le idee migliori siano quelle più ovvie”. Ci è venuta in mente questa frase quando abbiamo capito che la scelta giusta fosse anche quella più ovvia, più ‘banale’ in un certo senso: accettare i caratteri della tipologia. Abbiamo ricavato un nuovo spazio demolendo il muro preesistente e creando uno ‘spessore abitato’ tra due nuove mura, uno spazio interstiziale aperto su due lati in modo che fosse passante. Iniziando a lavorare più sistematicamente – con dei modelli e degli schizzi molto semplici – abbiamo deciso di colorarlo di nero, cosicché più che definire sé stesso, potesse modificare e intensificare la relazione tra i due locali adiacenti. Le nostre discussioni con i clienti di solito partono dal cercare di far capire a livello concettuale qual è l’intento di quello che stiamo cercando di proporre; la scelta del colore nero, in questo caso, può apparire particolare ma noi non la percepiamo come una decisione da giustificare, bensì come uno sviluppo naturale del progetto. Nella relazione con il committente, è stato proprio il graduale progredire del progetto a essere interessante. Pur essendo un lavoro di ristrutturazione relativamente piccolo, non è stata una proposta nata d’istinto, bensì attraverso una serie di ragionamenti, alcuni dei quali fatti insieme. Un lavoro costituitosi dunque anche attraverso il confronto con il cliente, le provocazioni e gli stimoli reciproci. In questo progetto, così come negli altri, non abbiamo mai cercato a tutti i costi una soluzione all’inizio.
La soluzione è il punto di arrivo finale. Quasi il contrario dell’altra faccia del nostro lavoro, i concorsi, nei quali si è subito costretti a comunicare un’idea chiara e precisa. Tornando al progetto, le aperture nelle mura che delimitano questo nuovo spazio non toccano terra; così facendo, non sono lette come delle porte, bensì come un quadro, un’illusione, un continuo scambio tra tridimensionale e bidimensionale. Poco tempo dopo esserci andato ad abitare, il committente ci ha inviato una foto nella quale ci mostra come abbia fatto diventare il locale una sala di proiezione, il che aumenta il collegamento tra i tre ambienti. Questa foto, nella quale, con l’ausilio di un proiettore, l’immagine del film attraversa tutti e tre gli ambienti, ci ha fatto capire che dove noi abbiamo visto delle possibilità, lui ha visto all’interno delle altre opportunità. Siamo sempre abituati a considerare che una sala è una sala, una cucina una cucina, una camera una camera, ma in realtà pensando più in generale all’architettura, gli spazi sono tali e possono essere utilizzati in maniere diverse, possono creare delle relazioni completamente nuove e inaspettate tra di loro.
Piccole opportunità / altri lavori
Siamo contenti di aver fatto questi piccoli interventi come primi lavori. Oggi, è quasi un’imposizione che un architetto, anche se giovane, debba per forza vincere un grande concorso per riuscire a sostenere uno studio. Ricordo una conferenza di Álvaro Siza nella quale parlava di un suo primo incarico: la cappa per la cucina dalla nonna. Ci piace pensare che si possa fare un percorso architettonico per passi che, per quanto piccoli, possano essere ordinati. L’economia d’oggi inibisce quasi del tutto questo modus operandi. Mi piace pensare che questo progetto dimostri che si possa fare architettura in tanti modi. Il famoso slogan ‘dal cucchiaio alla città’ esprime come ci si possa applicare a diverse scale con lo stesso atteggiamento. È una questione culturale prima ancora che dimensionale, sebbene la contemporaneità abbia poi cominciato a dividere gli architetti degli interni, dei grattacieli, ecc. Ogni nostro progetto ha una propria particolarità e un qualcosa che li accomuna: le qualità formali, tettoniche e materiche che vengono messe in mostra attraverso un lavoro di riorganizzazione tipologica estremamente semplice e di nuova configurazione spaziale. Nel loft a Oporto, per esempio, dove la struttura esistente viene mantenuta in vista e diventa, unendosi alle nuove pareti, elemento di continuità tra il nuovo intervento e lo stato di fatto. O ancora, l’appartamento EG, dove la sequenzialità degli spazi è enfatizzata attraverso il dialogo tra le nuove aperture e quelle esistenti. Penso che aver avuto occasione di lavorare sulla piccola scala ci abbia permesso di sperimentare cosa significhi collaborare a stretto contatto con la committenza. I nostri lavori d’interni sono capitati quasi per caso, tuttavia ci hanno permesso di compiere dei ragionamenti molto mirati sui criteri essenziali dell’abitare e dell’architettura in generale. Cerchiamo di approfittare dei compiti, tutto sommato limitati, delle situazioni ordinarie, per arrivare a ripercorrere i pensieri primordiali dell’architettura. Siamo convinti che non esista un’architettura d’interni e una d’esterni, esiste l’architettura. Ogni intervento che facciamo è, comunque, una traccia che viene compiuta sulla crosta terrestre. Anche all’interno di un appartamento, questa traccia rimane e appartiene alla struttura, ai muri, appartiene alla città e quindi – continuando secondo questo ragionamento – alla massa del mondo. Siamo molto interessati alle infinite possibilità, in termini spaziali, che si aprono anche attraverso lavori cosiddetti ‘minori’. Siamo tutti abituati a lavorare per dato di fatto, per spazialità che abbiamo già in mente, ma in realtà nei piccoli interventi ci sono delle grandi possibilità ancora da esplorare e da scoprire.
Le stanze e la crosta terrestre / Rooms
La galleria Prinzip a Monaco, interessandosi ad alcuni dei nostri lavori, ci ha invitato a fare una piccola lezione insieme ad altri studi. Era stato chiesto a ogni progettista di portare un oggetto; questo non doveva essere necessariamente una propria architettura, bensì qualcosa che potesse suscitare un dibattito sul proprio lavoro. Abbiamo deciso di rappresentare ‘la stanza’, il punto di arrivo di un progetto ma anche il suo punto di partenza. Abbiamo quindi modellato e riutilizzato gli spazi realizzati all’interno dei nostri progetti con una certa libertà. Intendendo ogni stanza come un’unità, in modo da sottolineare l’appartenenza a un sistema che – seppur infinito – ha al tempo stesso un’identità propria, abbiamo deciso di rappresentarle una a una, per un totale di 35 pezzi, attraverso un modello in scala 1:20 in cui gli spazi possono muoversi leggermente e quindi ricavare altri spazi tra di loro, formando una sequenza infinita e interstiziale. Borges, riferendosi alla letteratura di Kafka, parla di ‘subordinazione e infinito’. Questo tipo di osservazione può essere utilizzata anche nell’architettura. Ogni scelta che facciamo ci obbliga a farne delle altre subordinate alla prima e viceversa. Eppure, quest’idea di subordinazione non è un’idea di chiusura o di limitazione, ma apre all’interno della propria logica infinite possibilità. Lo spazio è un qualcosa di finito che, al tempo stesso, collega, crea rapporti, crea nuove possibilità con gli spazi che gli sono adiacenti. Un processo continuo e infinito di collegamenti su come le unità si uniscono o si relazionano tra loro. Siamo affascinati dall’infinita possibilità di combinazione di cose semplici; la musica è fatta da poche note ma le combinazioni sono infinite e anche l’architettura è aperta a queste possibilità.
Il testo è tratto da una conversazione tra Giacomo Brenna, Cristiana Lopes e la redazione, giugno 2018










