Leon Battista Alberti

Le condizioni del mondo attuale

Testo di Nicola Di Battista

n.2 settembre/ottobre 2018

L’architettura è grande impresa, che non è da tutti poter affrontare. Occorre essere provvisti di grande ingegno, di zelo perseverante, di eccellente cultura e di una lunga pratica, e soprattutto di molta ponderatezza e acuto giudizio, per potersi cimentare nella professione di architetto.  Giacché in architettura la maggior gloria fra tutte sta nel valutare con retto giudizio che cosa sia degno’ – Leon Battista Alberti

Da qualche tempo sono in tanti a pensare, e anche a dire, a gran voce, che il mondo in cui viviamo sia diventato piccolo, molto piccolo.

Eppure, questi ragionamenti non ci convincono per nulla, perché per noi, al contrario, il mondo resta grande, molto grande, anzi grandissimo: incommensurabile e immenso, quindi sostanzialmente ignoto. Questo stato delle cose crea chiaramente in tutti noi un perenne disagio e un senso di inadeguatezza nel vivere la nostra contemporaneità, dove l’unica cosa che aumenta a dismisura sono le merci e i prodotti di consumo, reali o virtuali che siano.

Una realtà che ci spinge a vivere in un eterno presente, globale, unico, ineluttabile, che spesso prescinde però dai luoghi in cui viviamo e lavoriamo, dai luoghi in cui semplicemente abitiamo, senza permettere più alla nostra presenza e alla nostra azione di tendere alla costruzione di un futuro migliore. Per questa ragione pensiamo sia oggi così importante soffermarsi a riflettere sullo spirito e sul carattere che conformano il tempo attuale, e lo facciamo iniziando dalle pagine della nostra rivista. Sì, da una rivista di architettura, convinti che proprio la nostra disciplina soffra, più di altre, questo stato delle cose.

Ma proseguiamo con ordine. Che il mondo sia diventato oramai completamente raggiungibile, è un dato di fatto incontrovertibile, ma l’immensità dei luoghi e i miliardi di uomini che li vivono, fanno sì che gli uni e gli altri restino comunque per noi in sostanza sconosciuti. Nonostante questo, la portentosa rivoluzione tecnologica della nostra epoca ha sancito il fatto che ormai il mondo è davvero piccolo e le sue tante innovazioni hanno fatto diventare questa idea, in un tempo molto breve, un sentimento universale e condiviso dall’intera comunità degli uomini che popolano il nostro pianeta.

Gli straordinari mezzi di trasporto, per persone e cose, di cui oggi disponiamo, insieme alla mostruosa circolazione delle informazioni dovuta ai nuovi media, hanno dato a noi tutti l’illusoria sensazione che l’intero mondo ci appartenga. In questa maniera, una sorta di insana onnipotenza si è impossessata della gente, trasformando completamente il nostro sentire comune e, con esso, anche le condizioni e l’orizzonte del mondo attuale.

Ma gli uomini in tutto questo dove sono finiti?

Cosa diventano le loro comunità? E, soprattutto, cosa diventano i loro luoghi, costretti con la loro forzata ‘fissità’ a una condanna a morte sicura, in favore di una ‘mobilità’ – comunque per pochi – alla perenne ricerca di osceni guadagni economici?

Di fronte a cambiamenti così radicali e veloci, siamo ridotti a semplici spettatori, spinti a partecipare a tutto, ma solo con un momentaneo e provvisorio sentimento di condivisione o al contrario, passivamente, di esecrazione; dimenticando che dietro a tutto questo ci sono persone vere, in carne e ossa, e non numeri, ognuna con una grande voglia di esserci, di partecipare, ognuna con il diritto di vivere in maniera consapevole e dignitosa.

Da cittadini, appartenenti a comunità che con orgoglio rivendicavamo nostre, ci siamo trasformati in spettatori disinteressati e inconsapevoli della grande commedia umana della vita, alimentando così questa immensa rappresentazione, dove persino la morte diventa spettacolare, come tutto il resto.

Succede allora che le nostre vite, la vita di ciascuno di noi, non conti più granché, vissuta da soli, così come la stiamo vivendo e avanzando in ordine sparso, così come stiamo facendo.

Se quelli che abbiamo brevemente tratteggiato sopra sono i caratteri principali che connotano il mondo attuale, ci conviene ora cercare di capire cosa essi hanno portato e continuano ancora oggi a portare nel nostro mestiere di architetti. È importante allora ripartire da una considerazione che dovrebbe essere per noi definitiva e non negoziabile: l’architettura è un fatto eminentemente collettivo, cioè a dire che essa può essere prodotta, esistere, darsi, solo come tale. Ci sorreggono in tale affermazione la millenaria produzione architettonica del passato, arrivata fino a noi, e anche le straordinarie e perentorie parole di José Ortega y Gasset quando ci dice che “…l’architettura non è, non può, non deve essere un’arte esclusivamente personale. È un’arte collettiva. L’autentico architetto è un intero popolo. Esso fornisce i mezzi per la costruzione, ne indica lo scopo e la rende unitaria”. È incredibile come Ortega riesca, in maniera magistrale, a condensare il senso più profondo dell’architettura e a dirci della sua assoluta necessità nella vita degli uomini. Le parole di Ortega sono inequivocabili quando pone l’architettura in un posto molto alto tra le attività dell’uomo, dato che “…essa non esprime come le altre arti sentimenti e preferenze personali, ma precisamente stati d’animo e intenzioni collettive. Gli edifici sono un’immensa espressione sociale. L’intero popolo si dice in essi”.

Quale onore per l’architetto sapere di poter rappresentare con la propria produzione l’intero popolo, ma anche quale monito inappellabile e definitivo il filosofo spagnolo ci rivolge, dicendo che l’architettura non potrà mai essere un’arte personale, pena la sua definitiva decadenza.

Se l’architettura è un fatto collettivo – anzi se è costretta a esserlo – essa può realizzarsi solo come espressione di una collettività, di una comunità di persone, e in quanto tale non può che riferirsi a luoghi specifici e particolari, dove queste comunità, più o meno grandi, vivono, lavorano, e quindi abitano; non può prescindere dunque dai luoghi che nel mondo attuale non si sono ristretti, ma addirittura si sono ampliati a dismisura, erano e sono ancora oggi, a maggior ragione, infiniti.

In un mondo che appare sempre più finito, sono gli uomini e i luoghi a restare infiniti. La differenza tra ieri e oggi sta nel fatto che questo assunto era nel passato un sentimento che apparteneva a priori a tutti e adesso, invece, è una realtà, un dato di fatto; perciò solo la consapevolezza di questa realtà può farci uscire dalla cecità con cui la nostra contemporaneità vede l’architettura.

Questo stato delle cose ha portato a un totale disinteresse dei luoghi e, soprattutto, di quelli più disagiati, più isolati, meno accessibili, quelli che avrebbero avuto invece più bisogno di cure, di attenzione, in definitiva di progetto, per poter vivere pienamente, anche loro, la contemporaneità. Tutto ciò chiaramente avrebbe implicato dedizione, impegno, perseveranza, lavoro, molto lavoro, e quindi fatica, per un risultato incerto, non sicuro, non garantito; è stato invece più semplice andare altrove, in posti più sicuri, meno disagiati, più accessibili, con più occasioni e minori rischi.

Così anche per l’architettura, come è successo per la finanza e per le merci, si sono cercati nuovi luoghi, nuovi spazi, ma solo come possibilità di lavoro, come opportunità di fornire prestazioni professionali, solo come ricerca di ulteriori profitti. Ma l’architettura è un’altra cosa. L’architettura come sappiamo è anche un mestiere, ma non solo quello. L’architettura ha bisogno di sottostare a dei principi, non può rinunciare a farlo, anzi, essa è costretta a farlo.

Così dicendo, non proponiamo certo di restare ancorati ai luoghi, ma per contro di lavorare nei luoghi, questo sì. Il nostro non è un mestiere che si può fare per procura; il progetto non è qualcosa di fatto e finito a priori, da poter mandare poi in ogni dove. Al contrario, è qualcosa di unico, buono solo caso per caso, di irripetibile, di non replicabile e indissolubilmente legato al luogo e alle persone che lo chiedono e lo determinano.

A tal proposito, ci piace ricordare qui alcuni pensieri espressi da Cesare Romiti in una intervista fatta pochi mesi dopo il disastroso terremoto che ha distrutto Amatrice. Parliamo dell’uomo che ha condotto la Fiat per molto tempo, compresi i difficilissimi anni Settanta, del super manager che per venticinque anni ha indirizzato e determinato le politiche di consolidamento e di espansione del più importante gruppo industriale italiano. Tra le tante cose riportate nell’intervista, dice Romiti: “Ora l’Italia è da ricostruire e la ricostruzione deve partire dal basso. Dai territori, dai paesi, dalla provincia. Dobbiamo ricostruire l’Italia passo per passo. Se avessi vent’anni partirei per Amatrice. Ogni comunità si dia da fare”. E aggiunge: “Dobbiamo trovare la forza del riscatto dentro di noi”.

Consideriamo queste parole molto importanti, perché tratteggiano con precisione quella che è oggi la grande e vera emergenza nazionale del nostro Paese. Ma, allo stesso tempo, propongono anche una visione, indicando una sorta di nuovo piano Marshall, che questa volta però parta dal basso e dall’interno.

Parole, quelle di Romiti, tanto più importanti perché dette da un grande manager e non da un filosofo. Parole che ci propongono una strada e soprattutto che ci dicono come percorrerla. Tutti hanno cercato di fare qualcosa per Amatrice, mandando questo o quello, in buona fede per carità cristiana, o in cattiva fede per averne visibilità sotto i riflettori accesi. In tantissimi si sono fatti avanti, rispondendo sotto la spinta dell’emergenza, ma sempre senza pensare al futuro, a un possibile domani per questi territori. Invece, in quel voler andare a stare ad Amatrice di Romiti, troviamo la semplice eppure rivoluzionaria risposta al problema, l’enorme differenza con tutte le altre: è lo ‘stare ad Amatrice’ il principio vero di una possibile rinascita per questi luoghi oggi distrutti.

Stare vorrebbe dire misurarsi con la realtà, capire, comprendere, sentire i tempi lunghi e rigidi dell’inverno climatico, sentire fisicamente la lontananza dai centri nevralgici del Paese, sentire il proprio isolamento e poter così meglio immaginarne un possibile futuro più adeguato al mondo attuale.

Tutto questo darebbe di nuovo a queste terre l’anima che hanno perso con la modernizzazione, ridarebbe loro una speranza, ricreerebbe quelle comunità che oggi ci mancano, le sole in grado di offrire i mezzi per la costruzione di un mondo nuovo, indicandone lo scopo e rendendolo unitario. Allora sì, che insieme a persone nuove, avremo comunità nuove e con esse la speranza di una nuova architettura.

Leon Battista Alberti