
Le cento città d’Italia: Venezia
n.6 novembre/dicembre 2019
Nell’immaginario collettivo, Venezia è una città immutabile e conclusa nella sua forma, determinata da condizioni geografiche uniche e conformata dal suo glorioso passato.
Angela Vettese ribalta letteralmente questa tesi, che se così fosse ne decreterebbe la morte fissandola in un tempo senza presente e, cosa peggiore, senza futuro. Al contrario Venezia appare oggi più viva che mai con una quantità insospettabile di architetture contemporanee che intervengono fortemente sul tessuto storico
Foto di Alessandra Chemollo
Venezia, o del tradimento come continuità
Solo tre anni dopo che Albrecht Dürer e Jacopo de’ Barbari disegnarono in sei enormi pannelli la mappa più famosa di Venezia, questa dovette essere aggiornata: i cambiamenti erano infatti rapidissimi. Se a Venezia sono state inventate molte cose che hanno cambiato il mondo, è perché la città è nata forzando la natura e quindi ha dovuto continuamente ripensare se stessa.
Un’immagine ottocentesca la propone come un contesto congelato, ma i secoli precedenti e successivi dimostrano come sia esattamente il contrario di un posto adatto al ‘dov’era com’era’: nulla può rimanere identico in un sito così problematico che, per competere o anche solo per esistere, ha dovuto avvalersi di ogni nuova tecnologia e anche inventarne da sé, come fu per certe tecniche costruttive, abilità artigianali e cantieristiche.
Oggi come ieri, il territorio può allargare artificialmente i suoi margini e lo ha fatto costantemente in modo ardito; rivelatrice la mappa recente che mostra il dubbio su dove far sorgere le nuove banchine portuali, inizialmente pensate per la zona di Celestia e realizzate poi sul lato opposto, nei pressi di Santa Marta. Ma per il resto, Venezia non può che crescere su se stessa e per questo ogni stile architettonico è stato accolto con tempestività: la nuova architettura ha sempre avuto il compito di ricucire, inglobare, adattare l’antico, aumentandone la funzionalità. La Serenissima conosceva e praticava il significato evolutivo del tradimento, in quanto modalità contro-intuitiva per rimanere fedele a se stessa: mentre abiurava a parte del suo passato demolendo calli, assegnando funzioni inedite a vecchie zone, creando ponti, confermava di essere figlia di adattamento e inventiva.
Così come da secoli ogni facciata reca finestre accecate, sinopie di pareti tamponate, ribaltamenti degli ingressi principali, allo stesso modo la Venezia di oggi mostra i segni di adeguamenti alle funzioni di una città moderna: uno sguardo dai tetti evidenzia un entrare e uscire di tubature, antenne, cavi, condizionatori. Il film Protocolli Veneziani (2014) dell’artista Antoni Muntadas, girato in barca, di notte, quando la città è spenta, ci mostra tutti i rammendi in prosa di un insieme poetico nel quale forme di epoche diverse recano differenti filosofie della vita, dal senso dell’unitarietà permanente a quello di un molteplice transitorio.
Questa premessa è necessaria per dire che anche oggi, a Venezia, nasce pensiero nuovo. Aldo Rossi, Luigi Nono, Antonio Negri, Giorgio Agamben, Gino Strada l’hanno scelta e altri continuano a sceglierla. Pochi notano che Venezia funziona in modo simile a ogni centro storico occidentale, con una periferia metropolitana dove si è spostata la residenzialità. Il suo presunto spopolamento non è altro che quanto accade in ogni centro direzionale, da Parigi a Londra a New York. Un fenomeno di scala internazionale viene letto come una peculiarità locale.
Per fortuna qui non c’è quella forma di distruzione del passato e ricostruzione fuori dal tempo che Rem Koolhaas ha definito CronoCaos. La durata si ricompatta nel presente, il passato rimane e si amalgama al nuovo in un succedersi di realtà, memoria, immaginazione attraverso i secoli, Venezia esiste nel presente, che più che altrove include il passato e la proiezione verso il futuro.
Lo aveva capito bene Giuseppe Mazzariol, direttore della Fondazione Querini Stampalia, committente di progetti architettonici, fondatore a Ca’ Foscari dell’area storico-artistica rivolta al contemporaneo, fondatore del CoSes, il centro studi sui rapporti tra Venezia insulare e Terraferma che fino al 2012, anno in cui è stato chiuso senza ragione, è stato un laboratorio di pensiero a cui ancora attingono i progetti per la città metropolitana.
Mazzariol, come il suo maestro Sergio Bettini, ha costruito una visione della città ancora attuale in cui si identificavano due poli produttivi, il porto e il tessuto culturale. Ed è vero che, dopo la crisi del petrolchimico, il porto e la cantieristica sono rimasti l’unica realtà produttiva e le due Università, l’Accademia di Belle Arti, i tredici musei civici, la Fondazione Cini, Palazzo Grassi, La Peggy Guggenheim Foundation, per non parlare della Biennale (che dal suo isolamento ai Giardini ha invaso e foraggiato il tessuto urbano) sono cresciuti e hanno fatto da traino a molte altre istituzioni di formazione e di produzione culturale, spesso gestite con denaro straniero come la Fondazione Pinault o la Fondazione VAC. Mazzariol aveva ragione quando pensava che “Venezia, nonostante tutto, possa garantirsi una lunga sopravvivenza ed esprimere ancora moltissimo come soggetto storico, perché al di là delle vicende della comunità che vi abita, è caratterizzata da un segno così forte, così alto, così vitale, che troverà sempre qualcuno disposto a interpretarlo”.
Anche Carlo Scarpa, laureato ad honorem solo l’anno della sua morte, che parlava in dialetto e insegnava a temperare le matite col coltellino, seppe vedere lontano. Per esempio come rispettare le grandi finestre con un sistema rinnovato di infissi, monumentale nell’aula Baratto di Ca’ Foscari ma ripetuto in mille luoghi, a cominciare dalle sue case private a Ca’ Tron, per mano di allievi, e comunque diventato un sistema salvifico per i palazzi: la vetrata si arretra e si ricrea in materiali resistenti, liberando e librando le polifore. È soltanto un esempio di come Scarpa abbia ripensato mezza Venezia agendo nei suoi interstizi. Non è l’unico modo possibile, ma è rimasto il più efficace perché non attira proteste.
Il dibattito moderno sui modi di rinnovare la città ebbe un punto saliente con la prima stesura, nel 1940, del libro di Sergio Bettini Venezia, pubblicato nel 1953. Si è poi fatto più chiaro con la mostra “Venezia Viva”, a Palazzo Grassi nel 1954, ed è cresciuto con le riflessioni di intellettuali e architetti, appunto, come Giuseppe Mazzariol e Carlo Scarpa. Il primo premeva sulla teoria, il secondo insisteva con la pratica. Un’azione come quella svolta da Roberto D’Agostino negli oltre dieci anni di assessorato alla Pianificazione Strategica non sarebbe stata possibile senza premesse come queste.
È probabile che il lungo lasso di tempo trascorso tra queste fasi sia stato dovuto agli effetti della cosiddetta acqua granda, l’alluvione del 1966: se portò un mucchio di denaro privato e soprattutto pubblico nelle casse della città, dando inizio al processo che avrebbe condotto alla Legge Speciale per Venezia, condusse anche l’attenzione sul tema della conservazione dell’esistente distogliendo l’opinione cittadina dall’idea di una Venezia rinnovata. A questo si aggiunsero circostanze collaterali: a livello locale, il progressivo accorpamento dei Musei Civici e trent’anni di gestione Romanelli, centrata sulla pura conservazione; in termini nazionali ed europei, l’affermazione dell’idea di heritage in quanto eredità da preservare, anziché dispositivo dal ruolo attivo. Gli interventi di architettura e di arte contemporanea a un certo punto si sono sbloccati e hanno iniziato a proliferare, anche grazie ai ripensamenti suscitati da alcuni eclatanti rifiuti: era stato detto di no a Frank Lloyd Wright, negli anni Cinquanta, per la costruzione di una casa dello studente dove ora sorge la Fondazione Masieri, in una volta del Canal Grande, così come era stato negato a Le Corbusier, anche se in modo non esplicito, di realizzare il nuovo ospedale a San Giobbe: l’architetto morì troppo presto, ma le sue idee non furono difese.
Non fu compreso e appoggiato nemmeno Louis Kahn, che nel 1969 progettò un Palazzo dei Congressi a Castello, cercando di collegare di più al centro l’area dei Giardini. Però più tardi si è detto sì a Calatrava per il ponte più lungo dei quattro che attraversano il Canal Grande, una balena inarcata che da sotto riprende il rosso amaranto di Venezia.
Un progetto che molti hanno giudicato difettoso, ma che comunque va assolto perché la committenza non ha saputo chiedere di rispettare le leggi sull’accessibilità, perché le leggi vigenti hanno impedito all’architetto di essere anche direttore del cantiere, perché il sistema degli appalti ha spinto a gare al ribasso per materiali e maestranze. In realtà i progetti rimasti al palo erano troppo assertivi per approvarli, i primi tre, o modificarlo, il quarto. A Venezia piace essere ‘una città incompiuta’, sempre modificata per frammenti. È un carattere che ritroviamo spesso nei progetti più scaltri. E se ne fanno tantissimi, soprattutto dopo la spinta data da Aldo Rossi nel 1985, quando curò la Biennale di Architettura intitolandola “Progetto Venezia”.
Forse nessun tessuto urbano ha ispirato un maggior numero di ipotesi per il suo rinnovamento, fino a quelle sognanti come la sua ricostruzione sopraelevata da parte di Yona Friedman o la rivalutazione del suo carattere di palude nell’opera di Gediminas e Nomeda Urbonas.
Le conversioni infatti ci sono, ma arrivano in modo che le si noti poco. In questo spirito hanno agito Vittorio Gregotti, che ha restaurato l’ex macello dove doveva sorgere l’ospedale di Le Corbusier, Ignazio Gardella alle Fondamenta degli Incurabili, Gae Aulenti all’interno di Palazzo Grassi, poi rivisto da Tadao Ando, che ha restaurato anche Punta della Dogana, Ugo Camerino e Michele De Lucchi alla Fondazione Cini, Rem Koolhaas – con massacro del progetto – al Fontego dei Tedeschi. E ancora, alla Giudecca si assommano edifici firmati da Rafael Moneo, Carlo Aymonino, Aldo Rossi, Álvaro Siza, Cino Zucchi, Boris Podrecca; il quartiere residenziale IACP progettato negli anni Ottanta da Gino Valle e Giorgio Macola. All’Arsenale la passerella in acciaio corten che lega le fermate del vaporetto Celestia e Bacini è stata realizzata nel 2000 da Alberto Cecchetto, che ha inventato anche la ‘casa nella casa’: grandi box eventualmente rimovibili fatti d’acciaio, vetro, lamiera e cemento per rendere di nuovo abitabili gli antichi padiglioni abbandonati dai cantieri. Nelle tese 107-112 le strutture contemporanee ingaggiano un corpo a corpo aggressivo con le antiche mura di mattoni.
Nel Centro di controllo firmato da C+S Associati sono stati installati pannelli fotovoltaici sul tetto. La Torre di Porta Nuova restaurata da MAP Studio conserva all’interno la scala di legno, ma una scala nuova in acciaio corre verso la sommità e verso una terrazza da cui si vede una laguna di velme e barene e una terraferma che inizia con l’aeroporto dello Studio Mar. Le architetture nuove, insomma, a Venezia ci sono. Ma mentre nel Seicento era possibile al Longhena sbeffeggiare apertamente Palladio, in un dialogo tra Chiesa della Salute e Redentore, oggi il nuovo si deve far perdonare o nascondersi. Oltre a un culto del passato male inteso, oggi rovinano l’orgoglio del nuovo le bizzarrie del consenso, la rivalità tra architetti, la scarsa audacia delle soprintendenze e una visione del turismo per la quale la città tende verso la sua parodia: un pericolo appiccicoso, reso evidente nel film Chain City di Elizabeth Diller, Ricardo Scofidio e Charles Renfro in cui l’obiettivo, posto su di una gondola, guarda l’acqua di Venezia mentre siamo a Las Vegas, Nagoya, Tokyo, Macao, Doha. Quanto la contraddizione concettuale tra vecchio e nuovo sia solo apparente, è stato compreso da studiosi raffinati.
Per fortuna ci sono ancora moltissimi spazi in cui inventare: circumnavigandola, si nota come la città non sia una pietraia piena ma, al contrario, un colabrodo di vuoti, con gli angoli di memoria industriale, i lembi come Sacca Fisola con le case simili a quelle della periferia di Milano, le zone deputate a cantiere e lo spazio per un presente e un futuro ancora da costruire: al Porto, la più vasta area europea sull’acqua deputata all’industria, a Forte Marghera, una fortificazione con due caserme napoleoniche, e in tutti i margini in cui non sono ancora stati realizzati veri waterfront; ma soprattutto nel cuore stesso della città, dove gli spazi lasciati inabitati dall’esodo dei residenti potrebbero essere riportati all’uso di generazioni nuove, assecondando la prepotente vocazione di città universitaria, devota alla cultura in senso lato soprattutto se rivolta all’avanguardia, come dimostra il perdurare insperato del successo della Biennale e del suo indotto.
Solo la costruzione di un’economia del sapere può bilanciare quella del turismo e il pullulare dell’albergo diffuso, che vuol dire, anche, delegare ogni progettualità agli investitori privati e arretrare le responsabilità dell’amministrazione.






