
Le cento città d’Italia: Roma
Testo di Domenico De Masi
n.5 settembre/ottobre 2019
Al racconto delle città italiane e del loro futuro aggiungiamo Roma, la capitale del nostro Paese, ma anche la città per eccellenza, la città che tutto il mondo ammira principalmente per le sue forme. Della città eterna ci parla Domenico De Masi autore di un poderoso lavoro di ricerca sul suo futuro, ora raccolto nel volume Roma 2030. Dopo aver descritto le debolezze ma anche i punti di forza di Roma, la esorta a convogliare tutte le sue energie su un progetto condiviso, di valenza planetaria, e candidarsi a diventare città-mondo di rinnovata unicità
La prima Roma
A seconda dei criteri adottati, le capitali d’Europa sono 19 o 28 o 50. In ogni caso, Roma resta unica tra tutte, per vicende storiche e ricchezza d’arte. “Questa gente lavorava per l’eternità”, esclamò Goethe ammirando i Fori e la tomba di Cecilia Metella. Secondo lo storico tedesco Theodor Mommsen: “A Roma non si sta senz’avere propositi cosmopoliti”.
Come per ogni essere vivente, anche l’identikit di una città inizia dal suo sesso e dalla sua età. Roma è una signora di 2.772 anni, essendo nata il 21 aprile del 753 avanti Cristo. È dunque molto più giovane di Gerusalemme, nata 672 anni prima, e poco più giovane di Tunisi, nata 61 anni prima col nome di Cartagine. Invece è 500 anni più vecchia di Parigi, nata col nome di Lutetia; 706 anni più vecchia di Londra, nata col nome di Londinium; 2020 anni più vecchia di Pechino, nata col nome di Cambaluc; 2.210 anni più vecchia di Tokio, nata col nome di Edo. Per non parlare di città-bambine come New York, nata nel 1613 dopo Cristo, quando Roma aveva già 2.366 anni o come Dubai, nata nel 1798, quando Roma aveva già 2.551 anni.
Roma – ed è questa la sua unicità – rappresenta un palinsesto di monumenti che, sovrapposti e combinati fra loro, raccontano la storia dell’intera umanità. Ancora ci si interroga su quale sia stata la misteriosa e irresistibile forza inconscia che spinse Roma e i romani a ingrandirsi incessantemente, accrescendo, di conseguenza, le difficoltà di gestire un impero sempre più sconfinato e indocile. Alla morte dell’Imperatore Traiano (117 d.C.) l’estensione dell’impero andava dall’Oceano Atlantico al Caucaso, dalla Britannia al Reno, dalla Scozia alla Siria, spingendosi a Sud fino al Sahara e al Golfo Persico, con una superficie di 4,5 milioni di chilometri quadrati: quasi il doppio dell’attuale eurozona. Nel secondo secolo dopo Cristo la popolazione della città di Roma raggiunse 1,7 milioni di abitanti, ospitati in 49.000 edifici.
Alla Roma classica, repubblicana e imperiale, hanno fatto seguito altre tre Rome: quella cristiana e papale; quella post-unitaria e poi fascista; quella repubblicana.
La seconda Roma
Quando, nel 476, l’Impero romano d’Occidente chiuse la sua gloriosa parabola secolare, già la Roma classica aveva ceduto il passo alla seconda Roma: quella cristiana, che troverà la sua compiutezza con il papa Gregorio Magno (540-604). La città papalina adotterà un nuovo ordine urbanistico, scandito dalle grandi basiliche; un nuovo ordine sociale regolato sui comandamenti cattolici; un nuovo ordine politico e militare limitato ai territori dello Stato pontificio; un nuovo ordine economico capace di trasformare la paura del purgatorio in indulgenze e le indulgenze in denaro; un nuovo ordine spirituale mirato ad accrescere a dismisura un potere universale: sia in senso di estensione geografica, in quanto predicato dai missionari e vigilato dai confessori su tutto il pianeta, sia in senso di estensione temporale, dal momento che pretendeva di colonizzare, nell’immaginario collettivo, sia l’aldiquà che l’aldilà. Nella Chiesa e nella città di Roma la tradizione, la gerarchia, l’autorità, la netta divisione in classi, sessi, fasce di età e professioni hanno regolato per secoli i rapporti sociali con una fitta ragnatela di norme scritte e non scritte, imposte con la promessa del paradiso e la paura dell’inferno. Ma la magnificenza degli edifici rinascimentali e barocchi non riuscirà a nascondere la sciattezza amministrativa della città.
Ecco come, alla metà del Settecento, la descrive l’Encyclopédie: “Risulta dal calcolo che Roma è sei volte meno popolata di Parigi e sette volte meno di Londra. Ha la metà degli abitanti di Amsterdam dalla quale è ancora più lontana per ricchezza. Non ha marina, non manifatture, né traffici. I palazzi tanto vantati non sono tutti ugualmente belli perché tenuti male; la maggior parte delle abitazioni private è miserabile. Il selciato è cattivo […] le strade sono sudicie e strette e non sono spazzate se non dalla pioggia, che vi cade molto di rado”. Trent’anni dopo, nel 1786, Goethe sarà ancora più severo verso i romani: “Di questo popolo non saprei dire se non che è un popolo allo stato di natura e che, pur vivendo in mezzo alla magnificenza e alla maestà della religione e delle arti, non è dissimile d’un capello da quel che sarebbe, se vivesse nelle caverne e nelle selve”.
Roma, tuttavia, resta l’epicentro mondiale dell’ozio creativo, il luogo dove l’esuberanza del bello seconda il passaggio dallo stupore alla contemplazione e dalla contemplazione alla conoscenza: “Lo splendore delle maggiori opere d’arte” scrive lo stesso Goethe “non mi abbaglia più; vivo ora nella contemplazione, nella conoscenza vera e razionale”. In altri termini, il clima mite, la reminiscenza del panem et circenses di epoca imperiale, il fascino perenne dei monumenti, i cerimoniali fastosi del Vaticano, lo splendore spensierato delle feste barocche, le ingenti rendite accumulate prima con la colonizzazione del mondo, poi con l’astuzia delle indulgenze, andavano sedimentando quel carattere indolente dei cittadini e quella molle atmosfera urbana che oggi rappresenta il nucleo prezioso del genius loci romano. Nel 1817 Stendhal scrive: “Questo soggiorno tende a infiacchire lo spirito, a gettarlo in una sorta di stupore. Mai uno sforzo, mai un po’ d’energia: niente che vada di fretta”. E, un secolo dopo, Matilde Serao certifica: “L’attitudine di Roma è in una virtù quasi divina: l’indifferenza”.
La terza Roma
Il 21 gennaio 1871 fu approvata la legge con cui la capitale d’Italia veniva trasferita da Firenze a Roma. Fin dal 1860 Cavour aveva riconosciuto che “in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato”. Dunque, dopo la prima Roma classica e la seconda papale, nasceva la terza Roma, sabauda e poi anche fascista: 226.000 abitanti asserragliati dentro le mura e per il 60% analfabeti. Una massa di contadini inurbati, vessati dalla bigotta nobiltà papalina e da 12.834 tra preti e monache.
Però l’avvento della capitale d’Italia comportò per Roma un imponente urbanesimo che, entro il 1901 elevò il numero degli abitanti a 422.000. Tutti insieme, questi abitanti hanno creato una domanda di alloggi che si è aggiunta alla domanda di palazzi, di uffici ministeriali, diplomatici, aziendali e di rappresentanza, creando così una frenesia edilizia che sarà soddisfatta attraverso la lottizzazione dell’immenso verde urbano e una deriva imprenditoriale che tutt’ora imperversa. Mentre nelle altre capitali, che si andavano industrializzando, pulsava la vita dinamica delle fabbriche e le infrastrutture urbane si arricchivano di metropolitane, a Roma impazzava l’edilizia coprendo i prati e le ville e gli acquitrini con edifici umbertini prima e fascisti dopo.
Questa febbre edilizia, che ha prodotto una Roma sempre più diversa, in peggio, rispetto alle altre capitali europee, è continuata fino a oggi, tra un piano regolatore e l’altro, abbattendosi prima sull’area dentro le mura e poi, via via, sull’immediata periferia delle baraccopoli e sull’agro romano punteggiato di borgate senza epicentro, perseverando con immutata virulenza, con immutati criteri scriteriati di tipo urbanistico, architettonico, imprenditoriale, costruttivo, e interrompendo lo tsunami solo nei casi di carenti finanziamenti pubblici. Quando, sotto Mussolini, Roma raggiunse il milione e mezzo di abitanti, il suo piglio divenne intenzionalmente monumentale, affidato a un razionalismo architettonico piegato alla retorica nazionalista e imperiale.
La quarta Roma
Il 2 giugno 1946 ebbe luogo il referendum dal quale la forma repubblicana dello Stato uscì vincente. Da allora il Comune è stato governato da dodici commissari e ventuno sindaci. Di questi, dodici sono stati democristiani, tre comunisti, un socialista, tre democratici, uno appartenente al “Popolo della Libertà” e uno appartenente al “Movimento 5 Stelle”.
Tuttora Roma è dominata da quattro forze socio-economiche: l’Amministrazione pubblica, la Chiesa, l’industria edilizia e quella turistica. Tutte e quattro sono state abbondantemente lambite dalla corruzione.
Come Detroit è una company town per la General Motors o Essen per la Krupp, così Roma può essere considerata una company town del Vaticano: la più grande multinazionale al mondo con 421.000 religiosi, 712.000 religiose e 1,3 miliardi di fedeli. A Roma questa company possiede un quarto di tutto il patrimonio immobiliare ed esercita attività alberghiera in un quarto di tutti gli alberghi della città oltre che nei 297 conventi svuotati per la crisi delle vocazioni.
La quinta Roma
Dunque, il futuro di Roma – che il primo gennaio 2015 è divenuta “città metropolitana” inglobando i 121 comuni della provincia – è legato al suo genius loci impastato di storia, arte, cultura e tempo libero. Come ha scritto Nicola Di Battista già nel 2016, la rinascita di questa città tutta particolare “potrà compiersi in maniera più completa e profonda solo se Roma torna a fare Roma”.
Se per postindustriale intendiamo una società globale, universale, creativa, centrata sulle informazioni, i servizi, il tempo libero, i simboli, i valori e l’estetica, bisogna riconoscere che Roma è postindustriale da sempre e che già in epoca imperiale era più globale di oggi nell’economia, più universale nella lingua e nei valori, più creativa nella politica e nell’arte, più capace di organizzare il tempo libero, più esperta nel combinare lavoro, studio e gioco facendone un modo di vivere basato sull’ozio creativo. Le terme di Caracalla erano frequentate da 9.000 persone al giorno e i loro impianti consentivano di servire 1.600 persone contemporaneamente; le terme di Diocleziano potevano servirne 3.000. Il Circo Massimo conteneva 250.000 spettatori; il Colosseo, che per cinque secoli ha funzionato ogni giorno e a tempo pieno, conteneva 45.000 posti a sedere e 5.000 in piedi.
Nel 1900 vi erano nel mondo solo una diecina di città con più di un milione di abitanti; nel 2030 saranno più di 600. Solo una quarantina di queste potranno essere considerate “città-mondo”, cioè capaci di esercitare un’influenza planetaria come fanno già oggi la Città del Vaticano o la Silicon Valley. Roma sarà tra queste? Avrà la capacità di darsi un colpo d’ala progettando fin da ora il suo futuro in modo compiutamente postindustriale?
A ben riflettere, Roma è stata città-mondo ben prima di New York, Londra, Parigi, Pechino e Tokio. Lo fu in epoca imperiale conquistando paesi e popoli con le armi, la lingua, la cultura e l’economia. Lo è stata in epoca papale stendendo su tutti i popoli la sua protezione urbi et orbi e magnificando se stessa con il rinascimento e il barocco. Forse lo sarebbe tuttora se non fosse scandalosamente vero ciò che Dacia Maraini denunziò già nel 1975: “Non credo poter dire niente di originale sulle ragioni sociali e politiche che hanno reso Roma quella città brutta e sgangherata e inefficiente che è oggi”.
Per radicare nel suo genius loci una Roma città-mondo postindustriale, occorre convogliare tutte le energie su un progetto condiviso, di valenza planetaria. Una recente ricerca previsionale, condotta con il metodo Delphi e il coinvolgimento di dodici prestigiosi esperti di altrettante discipline, ha indicato quali sono i punti di debolezza e i punti di forza cui Roma deve riferirsi per un progetto così ambizioso.
I punti di debolezza sono la stagnazione economica e demografica; la rassegnazione, l’apatia, l’assenza di “visione” e di progettualità delle élite; l’incapacità di “fare cultura”; le gravi carenze della macchina amministrativa e dei servizi pubblici;l’incapacità dei cittadini di scegliere una classe politica propulsiva, capace di aggregare le forze economiche e sociali intorno a un progetto credibile e attraente anche per i giovani; la propensione a imboccare scorciatoie devianti nei piccoli e grandi affari; le eccessive disuguaglianze e le conseguenti forme di conflittualità; le carenze delle strutture formative, sanitarie, abitative e della sicurezza; la scarsa imprenditorialità.
Per fortuna, a questi punti di debolezza possono essere contrapposti altrettanti punti di forza: bellezza, apertura al mondo, tolleranza, inclusività, posizionamento geografico, qualità della vita; storia millenaria conosciuta in tutto il pianeta; popolazione studentesca di provenienza nazionale e internazionale; sede del Vaticano e compresenza di ambasciate, consolati, centri culturali di tutti i paesi del mondo; vivacità del terzo settore; élite giovanili sia nelle zone marginali che nel centro; fermento d’iniziative; nuovo protagonismo della società civile; proliferazione di piccole imprese; brand culturale e creativo; sede delle principali aziende di servizi del paese, dall’energia ai trasporti e alle comunicazioni; massima attrazione turistica; imprenditorialità femminile.
Secondo Andy Warhol: “Roma è un esempio di quello che succede quando i monumenti di una città durano troppo a lungo”. Non è detto che, da quei monumenti così a lungo durati, sia impossibile far nascere una città-mondo di rinnovata unicità.



