
L’arte della città
Testo di Raffaele Milani
n.1 luglio/agosto 2018
In un’epoca caratterizzata dal ricambio continuo e dalla creazione eclettica, l’invariante della città rimane uno strumento attraverso cui cercare di comprendere e analizzare la realtà che avanza. La questione della sua forma è al centro tanto del pensiero di Raffaele Milani quanto delle opere di Mimmo Jodice, scelte dal fotografo stesso in seguito alla lettura del testo che qui riportiamo
Esiste da tempo uno sguardo interrogante sulle forme della città. Che bellezza ha dunque, nella nostra epoca, la terra abitata?
Ha senso parlare ancora di bellezza? Nella città dell’era della globalizzazione, città delle lingue, dei popoli, delle comunicazioni, quale futuro appare, per l’umanità, tra i progetti della slow town e quelli della smart city? Inoltre, che valore ha o può ancora avere la città antica? Esiste un’arte della città? Cosa significa? Con questa espressione rintracciamo un sistema di caratteri dotato di un’intima aretè. A volte la città pare avere uno spirito intelligente e sensibile e vi cogliamo l’aura dell’abitare. Altre volte si presenta come un concitato organismo vivente. Comunque sia la sua natura, certamente duplice, spirito intelligente e corpo materiale, siamo invitati a meditare per essa, sul piano di una riflessione estetica, una politica di civiltà dettata dalle forme.
Allo stesso modo di un’arte del paesaggio, dove l’uomo è creatore di paesaggi coltivati, si può dire che esista un’arte della città come prodotto della cultura, delle comunità e dei singoli, degli architetti e degli artisti, dei progettisti e dei semplici lavoratori, dei cittadini e dei loro rappresentanti politici: risultato di uno sforzo ideale e civile, ma anche di un concreto, sfaccettato manifestarsi delle tecniche di manipolazione dello spazio, modellato anche, volta a volta, da quel certo gruppo sociale o dalle ideologie.
In tempi recenti la storia umana risulta sempre più ferita dal rapido sviluppo, estesissimo, improvvisato e sconvolgente, della città; al suo confronto, quasi si annulla il paesaggio esterno, ‘naturale’, divorato dall’espansione del cemento che s’irradia ovunque, non solo massicciamente, ma anche lungo i rivoli intricati delle vie di comunicazione. Nonostante quest’immagine devastante, restiamo però estasiati da alcune opere, per la straordinarietà e originalità di alcuni esempi d’arte architettonica, oggetti prima non immaginabili, e che destano ora grande stupore. L’architetto e il politico s’intendono contendendosi il trofeo del successo. Di fronte a questa prevalenza materiale dell’architettura urbana, constatiamo che declinano, all’occhio comune, le arti sorelle, come la letteratura, la pittura, la musica. Queste ultime, per tanto tempo regolari e rassicuranti, lasciano il posto al pulsare errabondo e delirante dello spazio cittadino in crescita, segnato, salvo rari casi, da una grande confusione nelle forme: la metà della popolazione vive in immensi habitat territoriali, pedina di una mappa sempre più potente, labirintica, pervasiva della vita e del movimento. Nell’era della globalizzazione, anche l’antico, nei suoi vari elementi caratterizzanti, felicemente sovrapposti nel corso del tempo, viene messo in una competizione brutale con l’irruenza di un’attualità che lo isola o lo mortifica.
Avvertiamo certamente, oggi, la supremazia dell’arte urbana sulla letteratura e sulla pittura, come sulla fotografia e sul cinema. Tuttavia alcune città, nel mito contemporaneo della sensibilità e del gusto, appaiono anche, per l’atmosfera che irradiano, sostanzialmente cinematografiche; è il caso di New York, Singapore, Shanghai, Tokyo, Dubai, Kuala Lumpur, Hong Kong, Chengdu, Chicago o Londra; mentre altre, con una forte notazione evocativa, ci appaiono invece più inclini all’immaginazione letteraria o pittorica: Parigi, Roma, Buenos Aires, Madrid, Berlino, Praga, Venezia, Amsterdam, Lisbona, Barcellona, Istanbul. Il piacere che offrono alla vista fantastiche volumetrie metropolitane o intriganti architetture dall’enigmatica e nascosta bellezza riporta infatti il ricordo di film o di descrizioni letterarie. Nelle città che abbiamo citato, le cui forme giocano suggestive e stimolanti scenografie, ci sentiamo noi stessi protagonisti di quadri cinematografici o di romanzi, a volte già conosciuti, altre volte da reinventare. I nostri apprezzamenti per una nuova flânerie scivolano attraverso le varie rappresentazioni offerte dalle arti e dai media, in un’eccitante strategia comunicativa, da un lato legata alla pervasività, come accade nella materialità dell’architettura, e, dall’altro, alla suggestione, come appare nell’immaterialità della parola scritta. La forma è una totalità le cui parti non sono semplicemente legate da una relazione di giustapposizione e contiguità, ma obbediscono a una legge intrinseca, la sola capace di determinarne il significato nel loro insieme. Ragioniamo sulle forme della città muovendo da processi dello sguardo e dell’osservazione che collocano le figure rispetto a uno sfondo e cogliendo, allo stesso tempo, il campo percettivo come un campo dinamico; qui la figura viene recepita secondo somiglianza, prossimità, simmetria, chiusura o continuità di direzione. Da Platone e Aristotele ereditiamo il fatto che il problema della forma non si distingue, in definitiva, da quello dell’essenza. Tuttavia, in questo nostro percorso, adottiamo l’interpretazione datane da Henri Focillon che, facendo riferimento a un pensiero di Honoré de Balzac, dichiara: “Tutto è forma, la vita stessa è una forma. Essa non è un contorno, un profilo, o una contingenza, ma un’espressione del mondo umano”. Se pensiamo all’arte, alla pittura come all’architettura, le relazioni formali in un’opera e tra le opere costituiscono un ordine, una struttura, una metafora dell’universo. L’intenzione associata a un’opera dell’arte, per esistere, deve misurarsi e qualificarsi nello spazio. Le forme, precisa ancora Focillon, non si riducono allo schema, allo scheletro di rappresentazione.
La loro vita prende corpo nella materia cambiando di qualità per mezzo degli strumenti e dell’opera umana; si attua in uno spazio che non è il riquadro astratto della geometria. Le forme vivono in un mondo fortemente concreto e differenziato. È alla luce di questa immensa varietà delle tecniche nella genealogia dell’opera dell’arte che noi possiamo notare che ogni riproduzione è attiva e non inerte. Forte di questo principio, il nostro sguardo coglie la città leggendo e comparando così non tanto le sue forme esistenti quanto le sue forme viventi.
Documenti d’archivio, cartografie, mappe, disegni, racconti, foto, vari apparati iconografici offrono immagini di città: dai mosaici romani al Liber Floridus (1120), miniatura di Lamberto di Saint-Omer, o dall’affresco di Giotto La cacciata dei diavoli da Arezzo (fine Duecento-primi Trecento) alla pala lignea Sant’Antilia con il modellino di Montepulciano (1401) di Taddeo di Bartolo passando per l’affresco senese del Gli effetti del Buon Governo in città (1338-39) di Ambrogio Lorenzetti. Miriadi di visioni di città antiche, poi di città moderne. Noi stessi passeggiamo nelle aree archeologiche sognando architetture immaginarie più o meno corrispondenti a quelle reali d’un tempo. E ci piace farlo. Le forme che ricaviamo si mescolano a quelle di possibili ricostruzioni: si entra nella storia attraverso l’esperienza delle rovine. Tanti esempi irrompono felicemente alla memoria, a seconda dei nostri viaggi fatti nella realtà o nella fantasia: città ittite, babilonesi, etrusche, greche, romane e poi successive nel tempo e nella varia geografia del globo. Naturalmente Atene, Roma, Cartagine, Costantinopoli, Gerusalemme e tante altre fino in capo al mondo. Sede di una comunità coesa, piccola o grande che sia, la città è segno di un’organizzazione umana via via sempre più complessa: un tessuto di edifici pubblici e privati, vie, quartieri, piazze, stadi dove s’incanala il traffico. La divisione tra settori (abitativo, commerciale, amministrativo, industriale) tende oggi a sparire nell’espansione del costruito che mescola le funzioni e le attività affermando estesi aggregati urbani omologanti.
A questa dilatazione materiale s’aggiunge una stratificazione temporale dei luoghi storici con il riconoscimento delle periodizzazioni e degli stili architettonici. Vestigia diverse si depositano le une sulle altre nello stesso spazio. I restauri mettono in luce, ai nostri occhi, alla nostra sensibilità, alla nostra intelligenza, il valore della memoria creando un sistema d’identificazione culturale oltre che artistica. Tracce e rovine d’antico che si ammantano di un’aura nostalgica a partire da Diderot, ma l’interrogativo che pongono, estetico ed etico, è antico esso stesso. Nella famosa lettera (45 a.C.) di Servio Sulpicio Rufo a Cicerone (Epistulae ad familiares, VIII, Libro quarto, 5), suo maestro e amico, nell’intento di consolarlo per la perdita della figlia Tullia, l’autore racconta di un suo ritorno dall’Asia durante il quale aveva visto città, un tempo floridissime, ora distrutte e in stato d’abbandono. Questa lettera di condoglianze s’interroga sull’inutilità del dolore legato alla brevità della vita umana se paragonato alla rovina di grandi città, considerate spesso, dai loro ideatori, organismi destinati a durare per sempre.
Le città hanno per lo più forma a scacchiera o seguono lo schema radiale, entrambi con varianti. Nella Cina tradizionale o negli Usa appare il primo caso, in Europa la forma ortogonale mista su impianto romano. In altri casi lo sviluppo urbano è assiale, quando l’espansione è appunto lineare. Comunque sia, a rete distesa oppure a convergenza su un punto centrale, la città ha mille forme legate alle culture che la rappresentano e al gusto delle genti che si succedono nel cammino umano. L’urbanistica rinascimentale, con un famoso esito a fine Cinquecento com’è il caso di Palmanova, aveva ripreso uno schema radiale nato con Piero della Francesca: la Veduta di città ideale (1480-90). Per dare forma ordinata e razionale alla città si era elaborato, quale concezione urbanistica, lo schema radiale a simmetria centrale a partire dai progetti di Leon Battista Alberti, da Filarete, con il disegno della pianta di Sforzinda, e da Francesco di Giorgio Martini per le sue città fortificate: idealità geometriche proseguite con Sebastiano Serlio, Andrea Palladio e Vincenzo Scamozzi. Basta entrare nel Teatro Olimpico di Vicenza del Palladio per viverne direttamente la strategia visiva e spaziale e farne esperienza.
In un più ampio spettro storico ci immergiamo nel tempo e scopriamo i modelli delle città che appaiono lungo l’Eufrate, il Tigri, il Nilo, l’Indo. Fantasie ricostruttive che agiscono per capire la storia e le abitudini di interi popoli. Ma la nostra passione è l’antica Grecia, oltre l’incanto che ci afferra passeggiando tra le rovine di Micene, Mileto o Delfi. Diversamente dalle ‘città dei palazzi’ costruite in Mesopotamia, la civiltà greca elabora città-fortezze in una strategia spaziale che separa l’agorà e l’acropoli, il basso e l’alto; un modulo che si ripete e si moltiplica nel Mediterraneo.
I romanzi hanno ampiamente narrato delle città. Vi entriamo per vivere una storia e per ammirare l’architettura nella sua varietà e nel suo complesso, allo stesso modo di come proviamo meraviglia nei confronti della natura. Il romanzo ha plasmato la personalità urbana, come ha dimostrato Franco Moretti. Agli scrittori, come poi ai registi di cinema, dobbiamo una conoscenza approfondita della vita cittadina contemporanea. Sono loro ad aver trovato grandezza e bellezza nei luoghi dove la gente comune passa incurante. Con sensibilità hanno creato un’atmosfera dello spazio trasformandolo in un paesaggio della mobilità. Il tempo si rapprende nello spazio e lo spazio s’espande nel tempo.
Abitare esteticamente una città vuol dire comprendere le caratteristiche visibili e strutturali delle case, degli edifici collettivi, dei monumenti, delle piazze. L’aprirsi delle stanze sul patio o sulla strada, l’estendersi verticale o orizzontale delle costruzioni e il loro aggregarsi, la mappa degli spostamenti tra vie e piazze, corrispondono a dinamiche fondate sulla sensibilità e la forma. Vi è, nella distribuzione di masse e materiali, un preciso nesso con lo spirito della narrazione che accompagna da sempre l’avventura umana, sin dai primi graffiti. Possiamo considerare la città un testo fatto di pietre, un’invenzione grafica, una trama di simboli e significati con elementi grammaticali, sintattici, per una retorica dello spazio, vivificata da figure ricorrenti.
Dove siamo? Ci riconosciamo ancora? L’identità sfuma, non siamo più tra noi, forse, eppure siamo ancora capaci di ritrovarci in una nuova convivialità tra popoli diversi. Per concludere, ricordo il fatto che, nell’epoca della globalizzazione, i confini sfumano in contorni sempre più lontani, smangiati e indistinti nel divoramento dei campi coltivati, avvolti in una temibile nebbia di smog. Sono i profili dell’habitat territoriale. Alcuni pensano che si acceleri, con questi fenomeni, la fine della città quale esempio di civiltà. Sull’onda di una rilettura di Oswald Spengler, avanzerebbe, in questa visione, il declino dell’Occidente e la città, da sempre reale e simbolica come abbiamo spiegato in queste pagine, sembrerebbe subire l’impatto di grandi trasformazioni entro cui svanirebbe il significato sia esplicito sia implicito dei suoi caratteri emblematicamente collocati nell’ambiente naturale. Non solo le forme, ma anche noi viventi saremmo sdefiniti. Forse è così, ma possiamo anche interpretare diversamente il cambiamento assegnando alle città europee una netta ripresa con la svolta dell’ecocompatibilità e dell’architettura verde degli ultimi anni. E da ciò emerge un indubbio valore di speranza nell’umanità e nella dignità della storia. Lo sottolineiamo ricordando Henri Lefebvre che riteneva che la città fosse un’opera d’arte; perché lo spazio non è solamente organizzato e istituito, è anche modellato, adattato, reso proprio da questo o quel gruppo sociale secondo le sue esigenze, la sua estetica, la sua etica, la sua ideologia.
Parti del testo sono tratte dall’opera di Raffaele Milani L’arte della città, il Mulino, Bologna 2015

