Ritratto di Giovanni Battista Piranesi-Pietro Labruzzi

L’architettura è l’architettura

n.5 settembre/ottobre 2019

“Io mi lusingo, che il molto, e serio studio, che ho fatto su quanto ci è per buona sorte rimasto di antichi monumenti, mi abbia posto in istato di eseguire questo progetto utile, e se mi è lecito dirlo, anche necessario. L’architettura condotta dai nostri maggiori al più alto punto di perfezione sono già parecchi anni, che sembra piegare verso la sua declinazione, e ritornare a quel barbaro, onde fu tratta. Quante irregolarità nelle colonne, negli architravi, ne toli, nelle cupole; e soprattutto quante stravaganze negli ornamenti! Si direbbe, che si adornano le opere architettoniche per deformarle, anziché per abbellirle.” – Giovanni Battista Piranesi

Forse è arrivato il tempo, finalmente, di affrontare e cercare di risolvere un problema che come architetti ci portiamo dietro ormai da troppi anni.
Sto parlando qui della questione dell’autonomia della disciplina e del giusto rapporto che essa deve avere con gli altri mestieri o con le altre arti.
Per poterne argomentare oggi con un sufficiente grado di consapevolezza, bisogna tornare indietro però di qualche anno, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, quando, soprattutto in Italia ma non solo, si era sviluppata un’accesa discussione che aveva creato movimenti e molte prese di posizione sull’argomento.
In quegli anni il dibattito intorno alla disciplina architettonica era diventato da noi molto vivace. 
Un dibattito sentito e vissuto da tanti come un potente atto di rifondazione del mestiere. Un dibattito che in breve tempo fu capace di proporre delle nuove idee e di elaborare un pensiero teorico compiuto, da subito utilizzato, con grande profitto, nella pratica progettuale di tanti architetti del nostro Paese, diventando difatti imprescindibile riferimento per il loro lavoro.
Una delle caratteristiche di quel dibattito, e forse una delle principali, è stata di certo la grande passione espressa dai tanti partecipanti, fortemente manifestata in quella occasione sia da parte di chi quelle idee stava elaborando e diffondendo sia da chi le avversava con altrettanto vigore e forza, onestamente, oggi possiamo dirlo, qualche volta in maniera anche un po’ violenta e sopra le righe.
Talmente chiare e convincenti comunque le tesi di quel movimento – diventato poi noto e riconosciuto in tutto il mondo con il nome di ‘Tendenza’ – da produrre da subito un brusco e repentino cambio di punto di vista rispetto al fare architettonico: un punto di vista nuovo capace di uscire velocemente dai nostri confini nazionali per imporsi, con rinnovato vigore e notevole successo, anche sulla scena della ribalta internazionale.
Fu quella la risposta culturale italiana alla grande crisi globale che l’architettura stava vivendo in quel momento; contro un orizzonte consumistico dilagante e apparentemente inarrestabile, si proponeva una sua rifondazione dall’interno, che partisse dalla funzione conoscitiva che le è propria e la sostiene.
Uno dei grandi meriti di quel movimento fu quello di opporsi al professionalismo imperante in quegli anni, proponendo per contro proprio una rifondazione dell’architettura vista come strumento di conoscenza, dotata di una sua autonomia, in grado perciò di recuperare autorevolezza, contrastando la perdita di significato che la disciplina aveva progressivamente subito.
Questo nuovo punto di vista permetteva oltretutto di guardare con rinnovata speranza al ritorno di un’architettura che non esprimesse più la sua principale ragion d’essere attraverso “sentimenti e preferenze personali”, ma al contrario tornasse a rappresentare “precisamente stati d’animo e intenzioni collettive”. Considerare l’architettura un fatto eminentemente collettivo, con tutto quanto ne consegue, è proprio uno dei principali temi da affrontare e i lettori di questa rivista sanno bene che anche noi oggi lo abbiamo messo al centro della nostra attenzione e delle nostre riflessioni.
Tornando ora ai nostri giorni ci accorgiamo che molto tempo è trascorso da allora e quella formidabile conquista, che aveva aperto per l’architettura, di nuovo, strade di progresso e di futuro, si è al contrario, a mano a mano affievolita. Gli architetti per primi, proprio loro, non sono stati in grado di reggere il forte impegno e le grandi responsabilità culturali e politiche che una tale presa di posizione richiedeva. Una posizione intransigente e non negoziabile, basata su questioni teoriche forti, scandite da parole come: architettura della città, conoscenza, analisi urbana, rapporto analisi-progetto, trasmissibilità, pensiero collettivo, autonomia della disciplina e altre ancora.
Questo nuovo sentire caricava certamente di grandi responsabilità il lavoro degli architetti, ma in compenso offriva loro anche la possibilità di partecipare con un ruolo di primo piano – da protagonisti e non da comparse – alla costruzione di una nuova modernità che partendo dall’eroico portato del Movimento moderno se ne affrancava e, seppure in continuità con esso, lo superava offrendo all’uomo contemporaneo nuovi orizzonti, ribaltando così completamente quella perdita di senso e di significato che l’architettura di quegli anni esprimeva già in maniera compiuta e sempre più massiccia.
Tuttavia, un certo immobilismo culturale, sospinto dagli interessi delle forze finanziarie – alla costante ricerca di maggiori profitti – unito alla parte più reazionaria dell’accademia di allora – esistente e resistente ancora oggi – sono stati purtroppo fatali per gli architetti di quel tempo, che forse avevano chiesto troppo a loro stessi, non accorgendosi che la posta in gioco era molto alta per poterla perseguire da soli, senza l’aiuto e il supporto di istituzioni e di collettività capaci di sostenerla.
Sarà allora proprio questa mancanza a far fallire il sogno di una possibile rifondazione dell’architettura su basi collettive e razionali, con un’autentica partecipazione popolare.
Tutto quanto, in quel momento apparentemente a portata di mano, si infranse così, di colpo, contro la dura realtà, e iniziò per gli architetti quel cammino lungo, difficile e controverso, durato decenni, che arriva fino a noi. Facendo ora un salto azzardato, ma necessario, che dagli anni Settanta ci porta fino ai nostri giorni, proviamo a vedere cosa rimane di quanto prodotto dalla nostra disciplina in quel tempo. 
È utile, a tal proposito, chiederci preliminarmente se quello che abbiamo oggi, ci soddisfa. Noi lo diciamo apertamente: no, per niente. Da molto tempo gli architetti hanno rinunciato a cercare dentro la loro disciplina la soluzione dei loro problemi: hanno preferito girarci intorno e ritenuto più comodo cercare al di fuori di essa le risposte alle loro domande, sperando di trovare altrove quello che pensavano non ci fosse più all’interno della disciplina. Un lavoro, quello dell’architetto, che qualcuno ha stupidamente preteso si potesse fare al di fuori di un sistema teorico di base, profondo e condiviso, capace di sostenerlo. 
Bisogna smettere di cercare sempre altrove, da qualche altra parte, la soluzione del problema. Non possiamo farla franca seguendo stupidi populismi e facili consensi, o inseguendo effimere mode e nuove e strabilianti tecnologie che promettono di risolvere tutto in un momento. È utile a tal proposito ricordarci sempre il monito di Palladio, quando ci ammonisce e ci mette in guardia contro “gli strani abusi e le barbare invenzioni”.
Purtroppo, da troppo tempo ormai, nel campo dell’architettura si è fatto proprio il contrario, perseguendo una forsennata ricerca – molte volte anche patetica – del nuovo a tutti i costi, del nuovo per il nuovo, nel perenne inseguimento del bizzarro, del sorprendente, dell’inusuale, del sensazionale.
In questa maniera non si è fatto altro che alimentare una continua litania di luoghi comuni che ha allargato a dismisura la distanza che separa l’architettura dalla società civile, provocando così proprio l’effetto contrario rispetto agli obiettivi che si voleva raggiungere, quelli di dare finalmente una solida base di partecipazione collettiva al proprio lavoro. Tutto questo è stato un fallimento totale che in pochi hanno cercato di arginare e contrastare. Noi, per contro, con i nostri strumenti, con i nostri mezzi, con le nostre possibilità, abbiamo sempre cercato di tenere alta la voce di una possibile alternativa a questa deriva qualunquistica, personalista e regressiva di fare questo mestiere. 
Se non vogliamo continuare a girare a vuoto, e noi non lo vogliamo, c’è oggi l’urgenza di tornare alla disciplina, di tornare a fare questo vecchio mestiere in maniera piena e condivisa, pur portando in esso le necessarie innovazioni capaci di renderlo ancora una volta buono e utile per il tempo attuale. È necessario tornare ai principi che le sono propri, a quei principi che le hanno permesso di sostenere la sua lunga e incredibile storia, per comprendere come ancora oggi tutto questo possa di nuovo produrre manufatti architettonici adeguati al nostro tempo e a esso profondamente conformati. Abbiamo sempre creduto nella necessità, per un architetto, di confrontarsi prima di tutto con la propria disciplina, di doverla per questo studiare a fondo, di sottoporla anche a un’analisi stringente per capirne la sua resistenza alle esigenze del tempo, con la modestia però di chi ha coscienza di non dover iniziare a scrivere una storia da zero; diffidando di quanti, semplificando, ricominciano ogni volta da capo, consapevoli invece di entrare in una storia iniziata molto tempo fa e che continuerà a lungo anche dopo di noi. Purtroppo dagli anni Settanta a oggi non ci sono più state le condizioni generali favorevoli perché un tale sentire potesse di nuovo affermarsi ed espandersi. Probabilmente la strabiliante rivoluzione tecnologica che ha invaso e cambiato totalmente l’intero mondo dagli anni Novanta in poi è stata talmente forte, dirompente e universale, da assorbire tutti i sentimenti che l’umanità è capace di esprimere in un dato momento, ponendo alla nostra “anima collettiva” altre priorità.

Ora però le cose stanno cambiando e continuano molto velocemente a cambiare: una nuova intelligenza collettiva è ormai ben visibile intorno a noi, visibile a tutti; evocata da milioni di giovanissimi che dal mondo intero, per la prima volta nella storia degli uomini, si fanno sentire, uniti e a gran voce, fissando le loro priorità; pretesa a tutti i costi dalla generazione dei trentenni che più di altre ha catastroficamente subito, impotente, l’ineluttabile deriva attuale; sperata da tempo, da chi, con più anni sulle spalle, ha comunque continuato il proprio lavoro con fatica e perseveranza, nonostante tutto, accumulando così sapere, conoscenza e competenza; sostenuta, infine, dai maestri che sembravano spariti – come, con inganno, in tanti ci hanno fatto credere – e che invece, sparsi per il mondo, sono sempre lì al loro posto, pronti ancora a dare una mano.

Noi ci siamo, e voi?

Ritratto di Giovanni Battista Piranesi-Pietro Labruzzi