
La responsabilità dell’architetto
n.5 settembre/ottobre 2019
Il mestiere dell’architetto comporta da sempre la commistione tra pensiero e azione concreta; Associates, studio fondato da Nicolò Galeazzi e Martina Salvaneschi, sviluppa il proprio lavoro precisamente in questa dicotomia, dimostrando come il ruolo dell’architetto richieda una presa di coscienza critica sui contenuti che sostengono il costruire, successivamente trasposti nella realizzazione delle opere stesse. Una responsabilità nei confronti della società e quindi della committenza, sviluppata attraverso un forte rapporto con le proprie origini
La nostra maniera di lavorare è nata conoscendoci, contaminandoci; l’abbiamo costruita insieme, nel tempo.
Ripercorrendo mentalmente i progetti fatti finora possiamo individuare tre temi che ricorrono nel nostro lavoro. Il primo è il Luogo che studiamo a fondo per cercare di comprenderne a pieno le potenzialità intrinseche, le tracce visibili e invisibili, gli aspetti materici e climatici e i sedimi storici che possono guidare il progetto. Questo studio implica anche un approfondimento riguardante le culture locali in cui operiamo, la loro storia, i loro rituali e in particolare le architetture anonime e spontanee realizzate nel corso dei secoli dagli abitanti di questi luoghi.
Architetture che pensiamo essere manifestazioni di un operare sincero, espressioni di valori che cerchiamo di perseguire ogni giorno nella nostra professione. Cerchiamo di comprendere a fondo le esigenze che le hanno generate, i sistemi costruttivi e i materiali con cui sono state edificate per poter realizzare progetti che nascano da una piena comprensione dello spirito del luogo. Da questa passione per i luoghi e l’architettura anonima è nato un progetto di ricerca dal nome Spontaneous Landscape che abbiamo di recente esposto alla Biennale di Architettura di San Paolo e alla Triennale di Lisbona. Spontaneous Landscape è una catalogazione di architetture anonime presenti nei luoghi in cui siamo cresciuti che sono state rilevate, ridisegnate e catalogate fino a raggiungerne più di 200. Il secondo tema è la Capanna, ossia l’architettura e la costruzione. Partiamo sempre da una tipologia definita che consideriamo essere la corretta risposta a una funzione data dal programma e successivamente la ‘inseriamo’ nel luogo, la mettiamo in discussione, la reinterpretiamo e modelliamo a seconda del sito, della sua storia e delle sue potenzialità analizzate in precedenza.
Lavoriamo quindi a un’atmosfera che vogliamo raggiungere e proviamo a farlo attraverso gli strumenti del nostro mestiere che sono lo spazio, la materia, la luce e il tempo.
Un’atmosfera capace di coinvolgere non solo la vista, ma tutti i sensi con cui di fatto esperiamo gli spazi. La Capanna ha inevitabilmente a che fare anche con il concetto di archetipo che coscientemente o meno rientra nel nostro lavoro che parte dalla memoria collettiva di luoghi e persone. Il terzo tema è il Fuoco, ossia la vita che scorre all’interno delle architetture che disegniamo e che modifica gli spazi che progettiamo.
Progettiamo per le persone, non per noi stessi e in quanto architetti ogni volta che facciamo un tratto con la matita su un foglio di carta dobbiamo essere coscienti del fatto che modifichiamo inevitabilmente non solo i luoghi, ma soprattutto le persone che li abitano e le loro vite. Siamo fortemente convinti della capacità dello spazio e dell’architettura di educare le persone e pensiamo che progettare edifici che tengano conto di questa forza educativa sia una delle sfide più affascinanti della nostra professione.
Il nostro metodo operativo, nello specifico, parte da una raccolta di dati che individuiamo nel luogo in cui interveniamo: testi, fonti storiche, rilievi e fotografie che diventano poi base per i primi schizzi. Costruiamo un modello fisico che diventa ‘luogo’ di sperimentazione per toccare e misurare con mano lo spazio e la materia, per poter verificare attraverso i sensi il risultato secondo un modo di operare che ha, in un certo senso, a che vedere con le pratiche artigiane.
Questo modello guida il progetto dall’inizio alla fine. Lavorare con i modelli è anche un modo per tornare bambini e non dimenticare il fatto che una buona architettura, a nostro parere, presenta sempre un grado di giocosità che può essere anche velato. Questa esigenza di sperimentazione diretta con i modelli, questo fare artigiano si è tradotto con il tempo nell’organizzazione di laboratori di costruzione partecipata che rappresentano per noi importanti luoghi di sperimentazione. Lavorando in team con studenti di architettura e persone non addette ai lavori, costruiamo piccole architetture provando a prenderci cura di un luogo. Ci siamo formati entrambi all’estero, in Brasile e in Portogallo. Queste esperienze ci hanno arricchito molto e al contempo ci hanno reso coscienti di quanto l’architettura nel nostro Paese stia vivendo un momento difficile. Nonostante questo, proprio per il sincero affetto che nutriamo nei confronti dei luoghi, abbiamo sentito l’esigenza di tornare alle nostre radici e di vivere il nostro Paese. Sentiamo che il nostro modo di operare è profondamente diverso da molti studi coetanei. In particolare per quanto riguarda gli strumenti che conducono alla definizione di un progetto: render, collage e disegni spettacolari che oggigiorno fanno parte del linguaggio di molti studi giovani, a nostro avviso, dovrebbero essere un mezzo coerente con il proprio modo di pensare il progetto mentre troppo spesso diventano il fine, un’immagine accattivante.
Vediamo sempre meno interesse nei confronti dello spazio, della materia, dei luoghi, soprattutto delle persone per cui progettiamo e che, inevitabilmente, condizioniamo.
Viviamo in un momento in cui c’è sempre meno rispetto per il tempo lento dell’architettura, tutto è dinamico e frenetico e questo si manifesta nella scarsa qualità di tanti progetti.
Il testo è tratto da una conversazione tra Nicolò Galeazzi, Martina Salvaneschi e la redazione de l’architetto





















