Orchestra diretta da Antonio Pappano

La musica per fare comunità

n.5 settembre/ottobre 2019

Il passato, fatto di legami e ascendenze familiari, e la fiducia in un futuro che passa negli occhi degli oltre millecinquecento allievi dell’Accademia di Santa Cecilia, nell’appassionato racconto di Michele dall’Ongaro: musicista, compositore, ma anche giornalista e autore radiofonico e televisivo, e dal 2015 presidente e sovrintendente della prestigiosa Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma. La musica come atto culturale, come strumento di cambiamento per comprendere e modificare il mondo. La musica che crea ponti tra le culture e tra pezzi di società. L’Accademia come istituzione che apre le sue porte e accoglie, in uno spazio che parla di musica e di storia: quella di un quartiere, il Flaminio, e di una città, Roma, in cui sorge il complesso progettato da Renzo Piano

Temo di appartenere a quella generazione vissuta nell’era del comfort. C’è stata l’età della pietra, l’età del ferro, e c’è stata ai nostri giorni l’età del comfort, grossomodo dal secondo dopoguerra fino alla crisi del 2008. Nella vita pensiamo di fare delle scelte, ma alla fine bisogna ammettere che spesso siamo fatti anche delle scelte di altri. Nella mia famiglia da un lato c’era la musica come elemento centrale, perché mio nonno era compositore e accademico di Santa Cecilia, in una famiglia di musicisti e attori da parte materna. Mia madre lavorava alla radio nella Compagnia di Varietà della Rai, quindi la mia vita era in parte a via Asiago, dove c’è il Centro di Produzione RadioRai di Roma, e qui al Santa Cecilia, dove ho imparato a leggere e scrivere musica prima di imparare a leggere e scrivere le parole. L’altra parte della mia famiglia, quella di mio padre, è fatta da generazioni e generazioni di giornalisti e scrittori; poi mi sono reso conto che in qualche modo ho cercato di mettere insieme questi due sentieri in maniera molto faticosa, perché il musicista è stato quello che ho fatto, componendo e suonando pianoforte, insegnando vent’anni in conservatorio e poi diventando anche accademico al Santa Cecilia esattamente come era stato mio nonno; però ho fatto anche trent’anni di radio, un po’ di televisione, per cui ho esattamente rimesso i piedi dove li aveva messi mia mamma in via Asiago; ma ho sempre collaborato con i giornali, quindi ho sempre cercato di scrivere, ed è una cosa che veniva da quell’altro pezzo della mia famiglia. Insomma, ho cercato di tenere tutto insieme. Se ci sono riuscito non lo so, mi sono sicuramente divertito molto; per lo meno non ho avuto il problema di domandarmi chi fossi, problema che sempre i ragazzi hanno: sarò uno struzzo, una volpe, una scolopendra, o un ornitorinco?
Fare musica per me è stata sempre un’idea molto larga: scrivere musica, suonarla, ma anche organizzarla e soprattutto pensare la musica come uno strumento del cambiamento, uno strumento che serve a capire il mondo, a comprenderlo e anche a modificarlo. E, soprattutto, a costruire identità e fortificare la comunità; questa è una cosa in cui ho creduto da quando ero ragazzo, da quando avevamo un collettivo politico del Conservatorio di Santa Cecilia, da quando avevamo messo su un gruppo, che si chiamava Spettro Sonoro, che si occupava di musica contemporanea, ma che è anche stato protagonista, nel 1979, della prima esecuzione assoluta dell’integrale dell’opera musicale di Friedrich Nietzsche. E poi ho cominciato a organizzare attività musicali e parlare di musica, e portare la musica dappertutto come una sorta di virus positivo che potesse in qualche maniera diffondere il fatto che la musica aiuta, aiuta a comprendere le cose e a modificarle.
Nel tempo ho imparato anche a restituire agli altri quello che mi sembrava di aver avuto, cioè ad aprire le porte. Io ho avuto la fortuna di incontrare grandi geni, grandi musicisti, grandi personalità, non solo della musica: da Gianni Rodari a Luigi Nono e Luciano Berio, da Claudio Abbado a Maurizio Pollini, a pittori come Carlo Hollesch, o Gae Aulenti e Luca Ronconi. Ecco, da questi giganti, e ne cito solo alcuni, ho capito che bisogna sempre lasciare delle porte aperte e continuamente avere a che fare con i giovani. Oggi siamo in una fase di transizione: il cambiamento è inevitabile perché i processi sono inevitabili. Sono ragionevolmente ottimista sul futuro, perché vedo ragazzi eccezionali. Ho il privilegio di frequentare una élite: l’élite di cui fanno parte ragazzi di estrazione diversa uniti però dalla passione e dalla voglia di dedicarsi totalmente al loro ideale. Questo fa la differenza.
C’è una generazione che tende a Greta, che si ispira ai ragazzini che negli Stati Uniti si oppongono all’uso delle armi nelle scuole. Siamo in una stagione in cui i leader politici hanno tredici o quattordici anni. C’è una spinta che noi dobbiamo intercettare, e darle una direzione, oppure continueremo a domandarci perché il mondo cambia e noi non ce ne accorgiamo.
Sono cose molto concrete, non è affatto idealismo. All’Accademia di Santa Cecilia abbiamo tanti ragazzi, millecinquecento tra ragazzi e bambini, abbiamo dodici cori infantili e giovanili, cinque orchestre, facciamo concerti per le donne incinte. Ma abbiamo anche i corsi di alto perfezionamento, per cui da zero a ventotto anni vengono qui a imparare musica. E io vedo in quegli occhi la riconoscenza nei confronti di un’istituzione che dà rigore, passione, pulizia e un’idea di futuro: io credo tantissimo nel futuro e nella speranza. Tutto questo lavoro serve a disegnare uno scenario in cui il merito sia riconosciuto.
Nel nostro Consiglio di amministrazione siamo molto sensibili al tema del merito, e ci siamo accorti che sul merito riusciamo a dialogare anche con le aziende più illuminate con le quali abbiamo relazioni di collaborazione in partnership. Sul merito riusciamo a trovare sintonie, convergenze e condivisione di una visione etica del futuro. Con i nostri partner dialoghiamo prima di tutto di merito, di visione del futuro e, solo dopo che si è stabilita una relazione, riusciamo a pensare progetti sui quali lavorare insieme. Una volta bastava andare a chiedere risorse, perché il nome dell’Accademia comunque apre molte porte, ora non puoi andare in giro col cappello in mano a chiedere risorse perché pensi di meritartele, ma solo perché vuoi davvero condividere un progetto. La parola chiave è diventata ‘condivisione’: si può chiedere qualsiasi cosa, ma solo in cambio di un progetto. E questo vale con tutti, con il pubblico, con gli abbonati, con i musicisti, con il personale, con gli sponsor, con i soci fondatori. E te lo devi meritare tutti i giorni, non si può dare nulla per scontato.
Conta molto la qualità. E naturalmente conta molto lo spazio in cui ci troviamo.
Noi andiamo in tournée in tutto il mondo e quando andiamo in queste megalopoli che ormai si somigliano tutte, come assembramenti giganteschi di grattacieli enormi, da Pechino a Dubai, dove è difficile anche andare a trovare un amico che abita di fronte perché non c’è un di fronte, ci sono trenta chilometri da attraversare, e non si sa come. Certo, non si può neanche contrapporre la capannuccia al grattacielo, ovviamente non è questo il punto. 
Qui secondo me entrano in ballo gli architetti, perché tutto quello di cui stiamo parlando senza un posto come l’Auditorium di Roma sarebbe più difficile da realizzare. Questo auditorium, il modo con cui Renzo Piano lo ha realizzato: qui abbiamo una cavea, abbiamo una piazza, abbiamo i giardini, c’è largo Luciano Berio, i giardini Claudio Abbado, la sala Santa Cecilia, la sala Goffredo Petrassi, Sinopoli. È una festa stare in questo luogo. 
Questo è un luogo in cui vivono tutti i pezzi di questo quartiere: in qualche modo è nuovo ma sembra che sia cresciuto naturalmente dal suo contesto, che sia quasi un’escrescenza naturale di un corpo che è fatto di verde, di parchi, di mattoni. Un luogo che racconta cose che non sapevi di sapere ma che poi guardandoti intorno ritrovi. 
Personalmente vedo l’architetto come una via di mezzo tra l’artista e il medico: cioè fa delle opere, per le quali ci vuole grande creatività, però al contempo ha una grande responsabilità perché si possono fare dei danni permanenti, come i tanti quartieri indecorosi delle nostre periferie.
Io la mia responsabilità, quella di dirigere un’istituzione importante come l’Accademia di Santa Cecilia, la sento soprattutto – e stranamente – uscendo da Roma. Noi siamo una delle orchestre che fa più tournée nel mondo, circa venticinque ogni anno, più di novanta in cinque anni, da Shanghai a Pechino, a Parigi, New York, Berlino, Vienna, le grandi capitali della musica mondiale. Ogni volta ci riportiamo un pezzo di queste città e di Italia che funziona e a cui teniamo molto. 

E poi è sempre bello tornare a Roma quando sei stato in giro per il mondo: tornando trovo la città in qualche modo più bella. È comunque la città più bella del mondo, c’è una compresenza di tutto, forse questa sua grande bellezza le viene proprio da questo. E qui a Roma ci siamo presi la responsabilità di essere istituzione e di usare lo strumento della musica in modo molto inclusivo. Per esempio, per due anni abbiamo diretto un coro a Rebibbia, lo abbiamo fondato insieme al ‘Progetto Fidelio’. Un’esperienza molto bella: abbiamo fondato un’orchestra amatoriale e un coro amatoriale di adulti consenzienti, come li chiamo io. 
Questa responsabilità è condivisa da tutti qui in Accademia. Qualche tempo fa ho fatto una riunione con tutti i ragazzi del Santa Cecilia, con tutti i giovani tra i quindici e i vent’anni: li ho chiamati, erano più di cinquecento, sono venuti, abbiamo parlato per più di due ore solo delle loro proposte e nessun intervento ha riguardato esclusivamente loro stessi. A un certo punto si alza una ragazzina, capelli rossi con le lentiggini, sedici anni. Si alza e ci propone di fare dei programmi o dei progetti sui migranti. Perché è vero, la musica è fatta anche di questo: d’altronde quasi tutti i musicisti che hanno conquistato il mondo nel ‘700 erano di origine napoletana o pugliese. L’idea è di andare anche nei luoghi del disagio: andiamo appunto a Rebibbia grazie alla collaborazione con il Ministero di Giustizia, ma andiamo anche nelle scuole; usando tutto questo proprio come una piattaforma digitale, come una rete, come un sistema per fornire degli strumenti perché la musica diventi uno strumento per conoscere e trasformare il mondo.
Siamo sopra questa zattera che è la musica, e attraverso questa ci scambiamo dei messaggi e cerchiamo di capire. E in questo la musica ci aiuta. Senza l’istruzione musicale, così spesso chiesta, staremo tutti a svuotare l’oceano con un cucchiaino. lo dico questo perché bisogna salvare questo Paese e credo che la musica lo possa fare.
Qualche settimana fa abbiamo inaugurato proprio qui in Accademia, non a caso, l’Anno della Cultura e del Turismo italo-cinese. Un momento di incontro, e ovviamente la musica viene in soccorso, perché abbiamo avuto un’orchestra formata da cinquanta o sessanta ragazzini italiani, ai quali si sono aggiunti una trentina di ragazzini cinesi. Non c’è stato nemmeno bisogno di guardarsi negli occhi: hanno iniziato immediatamente a suonare quasi prima di parlarsi, in un contatto che fa sentire uniti per sempre. È la condivisione di una forte emozione che passa attraverso il corpo, perché poi la musica è una cosa molto fisica: si suda suonando, vengono i calli, i violinisti con i calli sul collo, i pianisti con i polpastrelli tutti schiacciati, i trombonisti che hanno problemi al braccio sinistro per come tengono lo strumento. Il corpo, quindi, e solo dopo arriva l’anima, lo spirito. La musica non è una, ma al contrario, le molteplici musiche sono tante strade identitarie. Se dovessimo chiedere ai ragazzi in cosa si riconoscono, la risposta è sempre ‘la musica’. Non i vestiti o i capelli, e la domanda è sempre quella: che musica ascolti? È questo che definisce chi siamo. E da sempre l’Accademia ha intercettato e a volte anticipato gli umori e le esigenze della società. Lì interveniamo noi, per offrire una varietà delle possibilità di ascolto.

Il testo è tratto da una conversazione tra Michele dall’Ongaro e Nicola Di Battista, Roma

Orchestra diretta da Antonio Pappano
Orchestra diretta da Antonio Pappano
Michele dall’Ongaro e Nicola Di Battista
Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica
Michele dall’Ongaro
Cavea all’aperto Luciano Berio
Veduta della cavea
L’Auditorium Parco della Musica