
La lettura perfetta
Testo di Elisabetta Rasy
n.3 novembre/dicembre 2018
Uno dei più grandi e sublimi artisti del Rinascimento italiano, Antonello da Messina, di nuovo in mostra nel nostro Paese in due città capitali, Palermo e Milano.
Lo segnaliamo ai nostri lettori con il bel testo che la nota scrittrice Elisabetta Rasy dedica allo studiolo di san Girolamo e con il famoso allestimento di Scarpa e Calandra realizzato per la mirabile esposizione del 1953 a Messina, “Antonello da Messina e la pittura del‘400 in Sicilia”.
Se c’è un luogo dove mi piacerebbe entrare è lo studio di san Girolamo come l’ha dipinto Antonello. Starei molto attenta a non fare rumore e a non essere goffa, non tanto per non disturbare il santo che ai fastidi era abituato, ma per non turbare la meravigliosa armonia di quello spazio e il suo perfetto silenzio. Entrando, vorrei trasformarmi forse in uno di quegli oggetti che in mirabile disordine circondano Girolamo immerso nella lettura, o forse in uno dei vari animali che gli fanno quietamente compagnia. Oppure, avvicinandomi senza farmi notare, mi metterei accanto a una delle finestre e guarderei fuori, quel dolce paesaggio e la sua luce accogliente. Sono questi gli elementi della fascinazione che quel luogo, cioè quel dipinto, esercita su di me: il silenzio, gli animali, la luce, i libri, gli oggetti, infine il disordine e la lettura. Il quadro è un racconto incentrato, mi sembra, proprio sulla polarità ordine/disordine.
La stanza è architettonicamente ordinata. Alla precisione di ogni particolare, come nella pittura fiamminga ben presente ad Antonello, risponde un’invenzione prospettica che ha la potenza dell’umanesimo italiano, ma anche quel tanto di asimmetria che caratterizza i luoghi indimenticabili. È un’architettura imponente, a partire dal grande portale a sesto ribassato che inquadra la scena, con la fuga degli archi del corridoio, l’alto soffitto, le bifore slanciate.
In questo vasto ambiente, severo come un convento ed elegante come un palazzo reale, è appoggiata, quasi fosse stata trasportata da un tappeto volante, la cella del santo, che qui non medita né si pente come quando frequenta il deserto, ma legge un cospicuo volume con grande attenzione e, sembrerebbe, con una certa curiosità di sapere quel che succede dopo, a giudicare dalla pagina che la sua mano sta voltando.
Nell’ambiente ampio e solenne tutto è ordinato; nel piccolo spazio dove sta Girolamo tutto è in disordine. Anche qui però c’è una contraddizione: la gran confusione dell’arredo – libri mezzi aperti e mezzi chiusi e accatastati alla rinfusa, oggetti appoggiati casualmente, l’asciugamano buttato sull’attaccapanni – contrasta con l’assoluta concentrazione del santo.
Che stia cercando elementi per uno dei suoi pamphlet polemici o che si stia intensamente dedicando a interpretare un passo delle Scritture, san Girolamo è prima di tutto un uomo che legge.
Chiunque Antonello abbia preso a soggetto per l’importante padre della Chiesa, il suo quadro è il ritratto di un lettore, un’immagine della lettura perfetta.
Per leggere bisogna fare silenzio dentro di sé e intorno a sé, non importa se ci sono in giro gatti, leoni, pavoni e pernici e uccellacci che vorticano dietro le finestre mandando per l’aria i loro gridi.
Non ci si può neanche curare troppo dell’ambiente, se c’è un panno sgualcito alla parete, o se le carte sono dove non dovrebbero essere, ci sarà tempo per occuparsene. Del resto così deve comportarsi il cristiano: l’ha detto Gesù, vagamente spazientito, a Marta, perfetta padrona di casa, di darsi una calmata e starsene in pace, come sua sorella Maria, a esercitare l’ascolto e il pensiero invece di sfaccendare.
Gli animali comunque non fanno confusione: se il padrone di casa è tranquillo, quella tranquillità si trasmette anche a loro. Molti studi attestano che quelle docili bestiole sono dei simboli. Ognuno ha la propria specificità cristianamente simbolica: il pavone rimanda all’immortalità, la pernice può alludere alla tentazione ma anche alla verità, il gatto è forse l’eresia che il santo combatteva, forse qualcosa di maligno ora acquietato (infatti è assolutamente placido), il leone è la ferocia domata dalla generosità. Ma il simbolo non è mai certo: se una delle sue facce è imprigionata in un significato che si tramanda nei secoli, l’altra è un’apertura sull’ignoto, un misterioso richiamo rivolto al fondo oscuro degli esseri umani, dove tutto è ambivalente e ogni cosa contiene il suo contrario. Soprattutto, però, quegli animali sono se stessi, figure del creato che accompagnano il santo nella sua solitudine di lettore senza disturbarlo, veri animali domestici che sanno vivere e abitare armoniosamente con l’uomo. Per esempio sembra strano, a guardarlo nella sua posa distratta e sonnolenta, che il gatto sia simbolo del male o di un carattere collerico, come qualcuno ha sostenuto. Il gatto è un gatto, e spesso chi legge ha bisogno di un gatto vicino: la sua calma vigile aiuta la concentrazione. Inoltre ci sono santi che preferiscono i cani, come il sant’Agostino nello studio di Vittore Carpaccio, e santi che preferiscono i gatti.
Girolamo si è tolto le scarpe prima di salire nel suo studio e mettersi a leggere. Togliersi le scarpe, lasciate in fondo alla scaletta che solleva la sua solitudine dal suolo, può essere un gesto di pura comodità. Ma anche un gesto cerimoniale o addirittura liturgico. Il santo sa che deve avere a che fare con il mistero della parola.
Di parole se ne intende, e Antonello dissemina i suoi libri qua e là perché vuole che questa estrema avvolgente competenza del santo ci sia ben chiara. Partito dalla nativa Illiria, ha studiato retorica a Roma, poi è stato in molti luoghi tra l’Europa e l’Oriente dove ha frequentato comunità ascetiche, perché ha capito che la parola non è nulla senza il silenzio. Così ce lo hanno raccontato nei secoli i pittori: a volte alle prese con la parola, piegato sulle pagine di qualche volume, altre volte nel deserto, dove tutto è inghiottito da una preghiera silenziosa.
Come nel deserto, anche nello studio il cappello da cardinale è lasciato da una parte, non più che un oggetto inerte, del tutto inutile nel lavoro che si sta compiendo.
E come nel deserto, Girolamo è qui in piena luce. Da dove viene tutta questa luce? Le aperture, in alto e a destra e sinistra, non creano che ombrosità, oppure riverberi. Questa luce è invece frontale, il grande arco del portale è spalancato su una violenta fonte luminosa diretta sulla figura seduta.
È una luce divina, o semplicemente la luce del mondo? Perché quella porta si apre verso di noi: forse è la pupilla dell’occhio di chi guarda a illuminare la scena.
Il santo non è rilassato nella sua lettura, come lo è per esempio il san Girolamo di Jan van Eyck, mano sulla guancia, espressione beata. Non è seduto compostamente, anzi è quasi in punta della sedia, le braccia tese verso il leggio come chi non è in riposo ma sta compiendo un’azione, forse uno sforzo. La lettura non sempre è uno sforzo, ma certo è un’azione.
Qui, nella tensione e nello sforzo, sta la potenza della figura che non ha nulla di banalmente devozionale, neppure l’atteggiamento da vecchio frate benevolo del san Girolamo di Colantonio, il maestro di Antonello. Sembra che il santo non fosse un uomo particolarmente benevolo: litigava con i suoi confratelli, persino con gli altri asceti del deserto, era severo fino alla durezza con i suoi seguaci e le sue seguaci, spesso doveva difendersi energicamente dalle calunnie oppure scappare. Ma il suo viso non ha nulla di duro, né è statuario o ieratico.
Chiunque fosse il modello del pittore (un re forse, Alfonso d’Aragona, oppure un cardinale filosofo, Nicolò Cusano, dicono alcuni), è un viso qualunque, il viso di un uomo segnato dalla vita ma capace di attenzione. E nell’esercizio della sua estrema attenzione si ristabilisce l’ordine contro il disordine dell’ambiente: i lacci dei volumi sciolti, i cofanetti che sporgono dallo scaffale, il foglio malamente accartocciato sull’ultimo ripiano della confusa libreria e le scarpe in basso abbandonate sbrigativamente trovano un’armonia imprevista grazie al suo sguardo e al suo gesto di tenace lettore.
Dunque nello studio, grazie all’ordine/disordine, tutto è vita, non still life, e invece passione silenziosa tra l’uomo e il suo libro. Ma l’intero spazio dell’opera ci suggerisce qualcos’altro. Guardiamo il leone: non sta porgendo la zampa al santo perché gli tolga la celebre spina, non sta accucciato ai suoi piedi. Vaga distrattamente nel corridoio come i leoni non fanno, neppure quelli della leggenda, ma come invece fanno certi animali che nei sogni appaiono dove non dovrebbero e come non dovrebbero, pure presenze incongrue. Quel leone nell’ombra non di una foresta ma di un elegante corridoio marmoreo è un’apparizione, e sposta tutta la scena nel dominio onirico.
Più in là c’è un cartiglio attaccato alla parete lignea della cella di Girolamo, in bella vista.
È la firma dell’artista? Un’indicazione per chi guarda? No, impossibile leggere quelle parole, sono una serie di segni indecifrabili, nessun alfabeto umano le registra. Avete mai provato a leggere qualcosa nei sogni? Impossibile. Quelle parole per sempre inconoscibili sono scritte nella lingua delle più segrete immagini notturne. Questa è la sostanza intemporale del san Girolamo nello studio di Antonello: ogni cosa nel suo ambiente, santo compreso, è qui, ora, vicina, tangibile, spudoratamente concreta; ogni cosa nello spazio complessivo e così vistosamente asimmetrico del quadro è misteriosa, figura di un Altrove lontano, che ci incanta e interroga.






