Sistemazione della piazza del Municipio e monumento ai Partigiani a Segrate

La formazione del nuovo architetto

n.5 settembre/ottobre 2019

È per noi oggi un onore e un piacere pubblicare il prezioso contributo che Aldo Rossi aveva scritto nel 1966, proprio per la nostra rivista – e che non sarà poi pubblicato – incredibilmente rimasto inedito. Nonostante siano passati così tanti anni dalla sua stesura, la questione della formazione dell’architetto affrontata nel testo e il punto di vista chiaro e preciso in esso espressi, restano ancora oggi fondamentali; anzi, se possibile, alle condizioni attuali queste riflessioni prendono proprio adesso una nuova forza, che ci piacerebbe servisse a scuotere le nostre istituzioni accademiche e i loro protagonisti. Non è più possibile girare la testa dall’altra parte e far finta di non vedere

Credo che oggi abbia un senso parlare della formazione di una nuova figura d’architetto, come fatto collettivo, per il rinnovato interesse che portiamo alla scuola, e nel fatto specifico all’Università; interesse che presuppone la possibilità, o almeno la speranza, di una sua profonda modificazione strutturale.
Quindi mi sembra giusto parlare della formazione di un nuovo architetto nel senso di un rinnovamento degli studi di architettura che riguardi tutti coloro che si accingono a questi studi.
Cercherò di rispondere in questo senso alla questione che mi è stata posta tralasciando di considerare l’altro aspetto, certamente decisivo, che riguarda il tipo di cultura, in altri termini il tipo di architettura, che ci fornirà un nuovo architetto.
Anche se le due questioni, formazione dell’architetto e elaborazione di una nuova architettura, non sono del tutto inscindibili e vedremo alla fine di queste note perché.
Parlare di formazione di un nuovo architetto, adottiamo questa definizione, significa affrontare tre questioni principali; quali sono le condizioni necessarie per questa formazione, chi si deve occupare dell’Università e come (cioè della formazione dell’architetto) e infine cosa si intende per libertà accademica. Ritengo l’ultima questione, per molti sensi, decisiva.
Considero la progettazione come condizione necessaria per la formazione di un architetto; parlo di progettazione e non di composizione perché il termine è più concreto; esso si riferisce a tutta l’attività creativa dell’architetto.
Insegnare la progettazione architettonica significa insegnare un sistema definito con cui affrontare e risolvere i problemi; ammetto che possano esservi diversi sistemi, e che anzi possa essere utile il loro raffronto e il dibattito che essi suscitano, ma sono convinto che l’unica possibilità di uscire seriamente dalla situazione in cui ci troviamo sia quella di offrire a tutti un sistema di progettazione.
In una facoltà d’architettura moderna dovrebbe esistere un solo corso di progettazione continua dal primo all’ultimo anno comprendente anche i problemi di progettazione dell’architettura degli interni e dell’urbanistica.
Esso rappresenta il corso d’architettura.
A fianco di questo insegnamento centrale e necessario devono essere potenziati al massimo una serie di corsi, liberi o meno, intesi secondo un vasto arco di interessi; quell’arco di interessi che necessariamente fa parte della formazione di un architetto e dell’architettura come disciplina.
Si dovrà valutare se una serie di materie, di carattere più analitico, come i caratteri degli edifici o i caratteri stilistici, dovranno far parte integrante dei corsi di progettazione o costituire corsi laterali.
È evidente che il corso di progettazione, così come viene qui inteso, dovrà essere necessariamente centrato sulla teoria architettonica; in altri termini sulla possibilità di un insegnamento razionale dell’architettura.
Con questo intendo anche rispondere a coloro che sostengono la necessità di una chiarificazione disciplinare, oggi, dell’architettura; cioè alla divisione tra architettura, urbanistica e arredamento di cui si sente spesso parlare.
Porre la questione in questi termini è perlomeno semplicistico; si tratta di dare un nuovo fondamento a tutto il pensiero architettonico, non di suddividere l’architettura nei suoi elementi costitutivi.
Noi potremo avere i maggiori risultati analitici solo se possediamo una concezione unitaria dell’architettura intesa come formulazione ultima dell’assetto fisico del mondo.
Ma credo che questa polemica si vada in parte oggi naturalmente ridimensionando; soprattutto per gli equivoci su cui essa si basava. Resta invece acquisito l’interesse per una progettazione a scala urbana e l’emergere dei problemi della città nel campo dell’architettura; interesse questo che risponde a più vasti interessi della nostra epoca come ad alcuni fatti concreti di trasformazione a cui assistiamo.
D’altro canto, dall’inizio confuso di questa polemica, si vanno precisando quegli interessi che appartengono ai problemi di pianificazione, questi ben individuati e specifici, e autonomi, nel loro sorgere nel loro precisarsi e nel loro imporsi, dalla cultura architettonica; problemi di trasformazione del territorio che non giungono a una definizione formale e che sono profondamente radicati nella economia e nelle scienze sociali in genere.
La facoltà d’architettura può così prospettarsi attorno a questo filone centrale della progettazione, dello studio e dell’invenzione delle forme in senso lato, e a una serie, il più vasta possibile, di insegnamenti laterali non necessariamente legati alla progettazione, nel senso di un prima e un dopo, ma presenti e importanti come elemento formativi di una autentica cultura moderna degli architetti.
Come nasce e come si sviluppa questa cultura delle scuole d’architettura?
Affronto così la seconda questione relativa alla formazione del nuovo architetto, nel senso che essa riguarda tutti i membri dell’Università e l’essenza stessa della cultura universitaria.
Io sono dell’opinione, opinione sempre più comune a gran parte del mondo universitario, che lo studio e l’insegnamento all’Università debba costituire un modo di vivere; di lavorare e di studiare. Mi riferisco al problema del full-time, o pieno impiego. Gran parte dei mali della nostra Università nascono dall’essere questa solo una parte dei nostri interessi; o meglio dal non essere questa la nostra naturale sede di lavoro. La figura del professionista che insegna a scuola riesce sempre più difficile da capire e da sostenere: oppure essa implica un discorso approfondito e concreto sull’insegnamento nella Università.
Esiste un tipo di esperienza professionale da portare nella scuola? È l’Università il luogo dove un tipo di esperienza professionale è utile?
So già che a queste domande si risponde sostenendo che l’esperienza professionale, in architettura, è inscindibile dal fare architettura. Una risposta di questo sembra ignorare che proprio il full-time darebbe al docente, e allo studente, la possibilità di un’esperienza di lavoro, cioè di progettazione, molto più ampia di quanto possa offrire l’esperienza del singolo.
Essa presuppone cioè che la scuola, i docenti e gruppi di lavoro, svolga un’attività di progettazione di carattere pubblico e di grande impegno. E solo così questa attività di lavoro può costituire quella comunità produttiva, quel continuo scambio di esperienza e quel continuo insegnamento, che è obiettivo dell’Università.
È falso, mi sembra, affermare quindi che una posizione di questo tipo sia antiprofessionalistica; essa lo è solo nella misura che ritiene essere la libera professione un altro tipo di attività, tanto degna e onesta quanto quella della progettazione e della ricerca universitaria, ma radicalmente diversa.
La formazione del nuovo architetto presuppone quindi e sollecita la formazione di un nuovo docente e di una nuova struttura della stessa istituzione universitaria.
E sarà proprio da parte di una nuova istituzione così costituita che maggiormente si sentirà l’esigenza di collaborazioni esterne e saltuarie, di formazione esplicitamente tecnica e professionale, capaci di illuminare problemi specifici che richiedono una specifica competenza.
Evidentemente una nuova struttura di questo tipo comporta da parte dello Stato uno sforzo notevole e notevoli problemi da superare: ma è anche nostro compito richiedere con fermezza, per un più efficace sistema dell’istruzione universitaria, queste iniziative e cercare di offrirne un modello preciso.
A questo stesso problema si deve riportare la questione dei diversi gradi della istruzione superiore, dei titoli, delle differenze tra scuole tecniche e professionali e Università.
Mi riferisco al cosiddetto problema dell’Università di massa.
Questa espressione è equivoca.
È proprio della democrazia, in quanto società aperta, di permettere a tutti coloro che possiedono le capacità di studio di accedere all’Università senza discriminazione di razza, di censo, di classe; ognuno sa che, per quanto riguarda l’aspetto economico, in Italia siamo ancora lontani da questo ed è essenziale che questo avvenga al più presto per avere veramente una università democratica e legata alla nazione.
Questo non significa che l’università democratica sia l’Università di massa; proprio nel mettere in primo piano il valore della ricerca e della libera impresa intellettuale dell’università si devono mettere in primo piano i criteri scientifici di selezione del mondo universitario, degli studenti come dei docenti.
Ritengo illegittimo che l’insegnamento universitario si rivolga ad altri fatti che non siano il significato delle cose.
Caratteristico dell’Università è rispondere alla domanda: che cosa significa? Non alla domanda: che cosa serve?
Anche se è altrettanto illegittimo che non esistano quelle scuole tecniche-professionali che dovrebbero formare quel corpo di tecnici così necessario per lo sviluppo del nostro paese.
Da alcune parti, e vi sono diverse proposte al vaglio in questo senso, si pensa di risolvere questo problema con le cosiddette lauree differenziate; è una delle soluzioni che si propongono e che qui non è opportuno discutere per non entrare in questioni tecniche ed estranee al tema generale che ci è stato proposto.
Affronterò brevemente la terza questione: quella della libertà accademica.
Questa questione può sembrare non specifica; ho detto invece che la ritengo decisiva.
Decisiva in quanto essa è la base per la realizzazione di quella comunità universitaria a cui ho accennato.
Parlo di libertà accademica in un senso molto vasto: le categorie in cui si devono far rientrare i programmi, la minacciosa prospettiva dei concorsi e dei titoli specifici snaturano il lavoro intellettuale.
È stato detto giustamente che un professore universitario deve egli stesso, seguendo gli sviluppi di una sua ricerca, fissare il proprio programma, insegnare ciò che sa, ciò che ama e ciò che continuo a studiare.
E soprattutto ciò che egli sente doveroso proporre come problema culturale.
Voglio qui citare Bertrand Russell, figura quanto mai pertinente in questo discorso come quella di un uomo di cultura che ha sempre identificato il suo lavoro culturale con il lavoro universitario, e citare proprio il suo discorso sulla libertà accademica.
Russell sostiene che il compito di fondo di un insegnante universitario è quello di “[…] esprimere le proprie credenze e le proprie speranze siano esse condivise da molti, da pochi, o da nessuno”.
Noi sappiamo che seguire questi principi non è semplice: e richiede carattere e preparazione scientifica.
Esso è vero per tutta l’università ed è vero soprattutto per le facoltà d’architettura, per il carattere stesso dell’architettura così sensibile ai miraggi e agli idola del proprio tempo.
Con la libertà accademica così intesa le facoltà d’architettura potranno proporre un loro discorso e una loro alternativa alla situazione generale; diventare dei centri di elaborazione, e non come a volte purtroppo accade, di semplice registrazione della cultura architettonica.
In questo senso, formazione del nuovo architetto e elaborazione di una nuova architettura, non sono obiettivi facilmente scindibili. Si tratta di porre i fondamenti dell’architettura e del suo insegnamento scientifico; e di stabilire delle scelte.
Cosa intendo quando parlo di stabilire delle scelte?
Intendo che ogni facoltà dovrà precisare il carattere del suo insegnamento e della sua ricerca fino a costituire una vera e propria tendenza.
Solo la formazione di tendenze permette quel dialogo a livello universitario, esposizione verifica e contestazione di tesi diverse, di cui oggi sentiamo la mancanza.
Non intendo tentare di giungere ora a indicare queste tendenze; ognuno di noi cerca di farlo con un lungo e continuo lavoro.
Intendo solo indicare la necessità che esse si costituiscano come veri e propri sistemi di architettura.
Allora queste scelte determineranno la formazione del nuovo architetto.

Crediti
Aldo Rossi e la Ragione. Architetture 1967-1997
Curatori
Fondazione Aldo Rossi, Cinzia Simioni e Alessandro Tognon (Associazione culturale Di Architettura)
Progetto di allestimento
Associazione culturale Di Architettura
Progetto grafico
Andrea Achilluzzi
Foto
Giovanni Emilio Galanello
Sede
Palazzo della Ragione, Padova
Date di apertura
01.06.2019 – 20.09.2019
Aldo Rossi. L’ Architetto e le Città
Curatori
Alberto Ferlenga
In collaborazione con
Fondazione Aldo Rossi
Progetto di allestimento
Benedetto Turcano (ufficio mostre del MAXXI Architettura)
Progetto grafico
Etaoin Shrdlu Studio
Sede
MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma
Cataloghi
‘L’inventario dell’archivio di Aldo Rossi nelle collezioni del MAXXI Architettura’, a cura di Carla Zhara Buda Aldo Rossi, i miei progetti raccontati, a cura di Alberto Ferlenga, edizioni Electa
Date di apertura
09.04.2020 – 17.01.2021
www.maxxi.art
Sistemazione della piazza del Municipio e monumento ai Partigiani a Segrate
Copertina del numero 1 della rivista l’architetto
Il dattiloscritto testo Aldo Rossi
Il dattiloscritto testo Aldo Rossi
Il dattiloscritto testo Aldo Rossi
Il dattiloscritto testo Aldo Rossi
Veduta modello del progetto Monza con Grassi
Copertina della rivista Casabella-Continuità, numero 276, giugno 1963
La città analoga 1973, di Arduino Cantafora
Allestimento della mostra Aldo Rossi
Disegno di Aldo Rossi, Architettura con santo