Università di Napoli su Corso Umberto Jodice

La diversità come risorsa

Testo di Gaetano Manfredi

n.2 settembre/ottobre 2018

Gaetano Manfredi, rettore dell’Università di Napoli Federico II e presidente della CRUI, descrive con parole chiare e precise un’epoca complessa come la nostra. In un periodo in cui l’abitare e il costruire – non essendo stati capaci di difendere la loro modernità – hanno portato a una dequalificazione dell’attività dell’architetto e a un allontanamento dei giovani da questa, investire nella cultura continua a restare l’unica soluzione possibile.
Connessa poi al nostro mestiere di architetti e ingegneri, resta determinante per Manfredi affrontare oggi la questione della inspiegabile scissione che si è creata nel tempo tra l’accademia da un lato e i professionisti dall’altro, un retaggio del passato che ha fatto nascere molti pregiudizi tra questi due mondi che tocca ora a noi riunire.

Sono stato il più giovane rettore della storia dell’Università Federico II, anche se devo ammettere che da noi c’è stata sempre una tradizione di rettori abbastanza avanti con gli anni. Provengo da una città di provincia. Essendo mio padre ingegnere civile, sono cresciuto a contatto con la professione, ma all’inizio non ho mai pensato di intraprenderla. Quando ero ragazzino, mi portava sempre in cantiere. Per me era come andare al luna park: ero la ‘mascotte’ di tutti gli operai. Alcuni li incontro ancora adesso: sono molto anziani, ma si ricordano di quando andavo a visitarli e loro, portandomi sulle spalle, mi facevano arrampicare sui solai in costruzione.

Eppure, nonostante questo rapporto diretto – quasi magico – che ho avuto sin da bambino con la professione, ho sempre pensato che avrei fatto studi nel campo letterario.

Avevo però un eccezionale professore di matematica al liceo, che quando ha scoperto che avevo deciso di iscrivermi a lettere mi disse: “Ah no, tu devi fare una materia scientifica, perché altrimenti sei sprecato”. Non sono convinto che avesse ragione, ma questo mi ha portato a iscrivermi a ingegneria.

Dell’ingegneria mi ha sempre affascinato l’abilità di razionalizzare, di avere un modello che descrivesse la realtà. Non avevo mai pensato di poter fare una carriera universitaria: nella mia famiglia non c’erano accademici. Quando il professore con cui feci la tesi mi chiese di lavorare con lui, non me l’aspettavo affatto. È cominciata quindi quasi per caso quest’avventura, e questo è un qualcosa che mi è rimasto dentro, sempre: il valore straordinario dell’opportunità. Non c’è niente di più importante che dare a un ragazzo un’opportunità: io l’ho avuta, ed è un qualcosa di fondamentale. Dare a un giovane una possibilità – di potersi esprime, di poter studiare, di poter realizzare e metter in campo il proprio talento – è l’unica forza veramente rivoluzionaria che secondo me esiste nel mondo. Ho sempre cercato di comportarmi di conseguenza, ricercando ambienti che fossero così e scegliendo i miei collaboratori secondo questa logica. La mia esperienza del mondo universitario è migliore di come viene quotidianamente dipinto: è fatta da tante persone di qualità, soprattutto persone normali in grado di fare la differenza.

C’è poi una grande provincia italiana che spesso è abbandonata e che invece dà tanto al paese. Il problema è che a queste persone viene spesso tolta la speranza, e con essa anche l’energia.

La crisi italiana è una crisi di speranza, data dal non avere più quei grandi obiettivi rivolti al futuro che un Paese come il nostro dovrebbe prefiggersi. Invece abbiamo una politica che ci spinge ad accontentarsi: non dobbiamo farlo! Senza sfida, non si va da nessuna parte. Ma, soprattutto, non dobbiamo far passare l’idea di una città in opposizione alla provincia, non dobbiamo far passare il messaggio che la provincia rappresenti il luogo della marginalità, il luogo dell’arretratezza. Non è così. Proprio perché la forza dell’Italia sono i suoi mille comuni, bisogna dedicarsi alla provincia, bisogna investire, bisogna coltivarla. I frutti della provincia sono il frutto di un investimento, economico senza dubbio, ma anche di riconoscimento.

Io giro molto nelle scuole, e vado più nelle scuole di provincia che in quelle di città, perché in queste ultime c’è meno bisogno della presenza dell’istituzione; sono di provincia le scuole che più conosco, le mie scuole.

Sono stato direttore di dipartimento per dieci anni, incominciando da giovanissimo. Con il tempo ho iniziato a capire che per dar vita a un ambiente in grado di stimolare idee nuove, bisogna investirsi in prima persona. È questa riflessione che ha dato il via al mio impegno istituzionale: volevo dare il mio contributo per realizzare un’università che mi piacesse.

Credo che mai come in questo momento l’università abbia un ruolo strategico nel cambiamento del mondo. In un momento come quello d’oggi, in cui non ci sono più ideologie; in un mondo in cui si tende sempre di più a una logica di scontro piuttosto che d’incontro cooperativo, l’università diventa il luogo ideale dello scambio d’idee; una grande piattaforma all’interno della quale possono convergere tante persone, un luogo di ricerca, di elaborazione di un pensiero nuovo. Tuttavia, per far questo, non dev’essere un luogo in mano alla sola accademia – come spesso è stato – ma aperto alla società, in maniera che tanti possano dare un contributo all’elaborazione di un pensiero comune. Questo è stato il lavoro che ho fatto sia come rettore che come presidente della Conferenza dei Rettori. Oggi la Federico II ha 80.000 studenti, 2.500 professori e, considerando complessivamente tutto il corpo degli accademici – specializzandi, dottorandi, assegnisti – e del personale tecnico e amministrativo, oltre 10.000 persone che vi lavorano. È una macchina enorme, la più grande realtà culturale del Mezzogiorno. Tutte le nuove iniziative produttive, tutti gli investimenti che ci sono stati in Campania negli ultimi anni, hanno sempre visto l’università come protagonista, come il grande agente di trasformazione economica e sociale. Per esempio, nell’esperienza di San Giovanni – dove abbiamo realizzato un polo tecnologico in una parte della periferia deindustrializzata – in tre anni il quartiere è cambiato in maniera radicale. Questo perché è l’identità del quartiere a essere cambiata; è rinato un orgoglio di appartenenza. Le persone, quando immaginano il quartiere San Giovanni, associato al nome della Apple, diventano orgogliose, si sentono un pezzo della modernità, non un pezzo del disagio.

I rettori in Italia, considerando tutte le università pubbliche e private, sono più di ottanta. Una realtà molto diversificata, a modo suo specchio del paese, perché fatta di grandi università cittadine, di piccole università di provincia; fatta di università generaliste, altre molto specialiste, università private, pubbliche. Fatta di nord e sud. Una realtà composita che è altresì termometro della società italiana, perché porta con sé tutte quelle differenze insite nel Paese. E questa è anche la sua grande forza.

La politica che ho perseguito, insieme alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, è stata quella di considerare l’università come un grande sistema nazionale, secondo l’idea che l’educazione debba essere un fattore unificante fondamentale di un paese.

Essere in grado di mettere in questo sistema nazionale le tante diversità è una grande scommessa, complicata, che in questi anni abbiamo provato a portare avanti, convinti delle nostre idee. Anche la migliore tra le università ha bisogno degli altri. Il fiore non nasce nel deserto, ha bisogno di una circostanza, di un contesto.  L’eccellenza non può esistere in un sistema desertificato.

La Crui appunto – la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane – ha la propria sede fissa a Roma. Da quando ne sono divenuto il presidente, ho rafforzato il carattere itinerante dell’istituzione. Ogni anno facciamo due, tre, quattro appuntamenti in giro per l’Italia, andando anche nelle sedi più piccole: è evidente infatti che fare una riunione della Crui a Reggio Calabria abbia un valore diverso che farla a Roma. Dopo il terremoto, per esempio, siamo andati a Macerata, e lì abbiamo fatto la nostra assemblea. Sono occasioni di riflessione importanti nell’ottica di costruire un’agenda politica comune a tutte le parti.

Una questione determinante, connessa al nostro mestiere di architetti e ingegneri, è la scissione inspiegabile tra l’accademia da un lato e i professionisti dall’altro. Si tratta di un retaggio del passato, un passato in cui si sono commessi degli errori che hanno fatto nascere dei pregiudizi.

Da un lato c’è stato un mondo accademico che ha guardato ai professionisti dall’alto verso il basso, sfruttando inoltre il suo ruolo per avere dei vantaggi professionali.

Dall’altro lato, un mondo professionale che è stato eccessivamente corporativo, che ha sempre pensato più alla difesa del ruolo in base alla norma piuttosto che ai contenuti. Questa situazione non solo ha allontanato il mondo delle professioni dal mondo delle università, ma ha anche creato dei conflitti. Mai come in questo momento noi dobbiamo riunire insieme questi due mondi. Perché le professioni hanno la necessità di aggiornarsi rispetto ai tempi, diventare consapevoli del cambiamento e quindi di riformarsi. E l’università ha bisogno delle professioni, perché deve insegnare la teoria ma anche il saper fare, e un mestiere lo si impara solamente facendolo. In altri settori questa comunanza è molto più forte, basti guardare alla medicina dove è storicamente così, e questo le dà una forza straordinaria. Bisognerebbe fare un’agenda comune nella quale si definisce un progetto di cosa significhi oggi ‘fare architettura’ e ‘fare ingegneria’ in Italia, e quindi percorrerlo insieme. Altrimenti saremo travolti completamente: o si ricostruisce partendo dalle competenze e dalla ridefinizione del ruolo che uno ha nella società, o altrimenti ci sarà sempre di più una marginalizzazione delle nostre professioni tecniche. A maggior ragione oggi, dove anche per via della grande rivoluzione che ha portato il digitale si è persa la prossimità territoriale, è venuto a mancare il senso di comunità e di luogo.

L’abitare, il costruire, non sono stati capaci di difendere la loro modernità. Sono sembrate una cosa vecchia, una comodità banale, e questo ha portato a una dequalificazione dell’attività professionale e a un allontanamento dei giovani da questa. Il fatto che i ragazzi non vedano più oggi nell’architettura o nell’ingegneria civile una delle loro prime scelte deriva sì dal fatto che c’è poco lavoro, ma anche dal fatto che associano queste discipline al passato.

Questa riflessione è legata a uno dei temi che vedo oggi fondamentali: il tema del digitale. Qualsiasi funzione che verrà svolta nel futuro ha nel digitale uno strumento indispensabile e fondamentale. L’architettura e l’ingegneria civile, per rinnovarsi, devono diventare protagoniste di questa rivoluzione. E tutto questo è legato indissolubilmente al nostro Paese! Un Paese che è stato tra i primi a cominciare la modernizzazione, ma che non l’ha mai conclusa. Dobbiamo contribuire ad aggiornare questo Paese, con tutto quello che la tecnologia ci mette a disposizione e tutto il nostro bagaglio culturale. E la modernizzazione passa anche attraverso un avanzamento nella definizione dei ruoli dell’architetto e dell’ingegnere.

Prendiamo il tema della gestione, per esempio. In un mondo complesso come quello di oggi, è importante non solo costruire ma anche gestire il costruito. Dunque, perché la gestione non dev’essere fatta da un architetto o da un ingegnere civile, che hanno la capacità, quella visione e quel bagaglio culturale per poterlo fare? Il nostro mondo invece ha delegato ad altri questo mestiere, come se considerasse il gestire una funzione di serie B. Altri, che per natura, per fatto fisiologico, non hanno le competenze adatte. Oggi le nostre competenze devono riappropriarsi di questi spazi, senza fermarsi all’idea che l’attività professionale consista solo in quella del progettista, secondo una figura quasi ottocentesca dell’architetto e dell’ingegnere civile.

Vanno dunque rivisti i profili formativi in maniera radicale. In un mondo che cambia così velocemente, avere delle competenze di base è fondamentale; solo avendo queste si è in grado di adeguarsi a quelli che sono i cambiamenti. L’università deve dunque mantenere, come del resto è nella sua tradizione, quella funzione formativa di base. E, contemporaneamente, bisogna essere in grado di guardare alle nostre figure professionali nella logica della loro modernità. Il che significa che oggi l’architetto, l’ingegnere, non possono più essere solo progettisti. Il processo edilizio è sempre più complesso: l’ingegnere e l’architetto non sono solamente dei creativi, ma sono gli integratori di un processo, devono essere in grado di gestirne la complessità.

L’esperienza della Conferenza dei Rettori mi ha aiutato a definire queste idee. L’essere presidente di questa e contemporaneamente rettore dell’Università Federico II a Napoli è stato importante. L’Università Federico II, una grande università nazionale, una delle prime tre d’Italia, persegue una politica che deve necessariamente rifarsi a una visione nazionale, anzi internazionale. L’essere poi contemporaneamente il Presidente della Conferenza dei Rettori mi ha permesso di guardare al nostro ateneo secondo una logica molto più ampia, capendo quali fossero i limiti e quali le opportunità. Ha rafforzato in me l’idea che oggi la formazione e la ricerca universitaria possono essere la leva più importante per ridurre i divari italiani: avere un sistema universitario competitivo nel sud significa riequilibrare anche il paese. Ma per far questo, bisogna uscire da una logica assistenzialistica nei confronti delle università del Mezzogiorno. Bisogna capire come fare in modo che le università del sud abbiano un livello di competitività che le renda attrattive per i giovani. Dal mio punto di vista, è possibile. Ci vuole una capacità di governo forte, ci vogliono delle politiche mirate: non assistenzialiste, ma di incremento della qualità territoriale.

Quello che ho portato da Napoli nella mia esperienza nazionale è proprio il concetto della diversità. Il sud è tradizionalmente, e Napoli in particolare, un luogo capace di metabolizzare la diversità. Napoli è stata una grande capitale, luogo in cui plebe e nobiltà stavano nello stesso palazzo. Ho cercato dunque di portare la bontà di questa convinzione: la capacità non di separare, ma di mettere insieme, che è molto più difficile.

Vorrei continuare questo percorso proprio riuscendo a trasmettere anche nella formazione e nella ricerca universitaria questa idea di contaminazione. Abbiamo già cominciato a farlo: il rinnovamento dell’area di San Giovanni di cui parlavo prima ha messo insieme competenze molto diverse, impresa privata e università.

Ma soprattutto, vorrei riuscire a utilizzare le nuove tecnologie per fare in modo che il patrimonio culturale del quale siamo grandi depositari diventi un patrimonio più condiviso: non solo di pochi, ma di tutti. Le grandi distanze che ci sono oggi nella società, sono spesso dovute a distanze culturali. Se riuscissimo ad avere una cultura maggiormente diffusa e condivisa, avremmo risolto gran parte dei problemi che abbiamo. E questo lo si deve fare partendo dall’università.

Il testo è tratto da una conversazione tra Gaetano Manfredi e Nicola Di Battista, Napoli, settembre 2018

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Gaetano Manfredi e Nicola Di Battista
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Cortile delle Statue dell’Università di Napoli Jodice
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Gaetano Manfredi e Nicola Di Battista