Quartiere richti, Wallisellen

La città non è il paesaggio

Testo di Vittorio Magnago Lampugnani

n.4 luglio/agosto 2019

Sollecitato da noi sul tema della progettazione della città contemporanea, Vittorio Magnago Lampugnani ci regala un potente e graffiante manifesto che fa chiarezza delle tante ‘ideologie’ che negli ultimi anni hanno occupato il dibattito architettonico e propone una sua visione per il progetto urbano 

La definizione classica della città come ambiente artificiale che, distinguendosi nettamente dalla natura, offre all’uomo protezione, vita comune e identità, resta ancor oggi moderna e addirittura particolarmente attuale. La distruzione del paesaggio dovuta all’invasione di città, insediamenti e infrastrutture esorbitanti prevalentemente destinate al traffico, ma anche di edifici isolati che proliferano in maniera abnorme, ha assunto negli ultimi decenni una dimensione più che minacciosa. In Svizzera si consuma attualmente un metro quadrato di terreno al secondo per la costruzione, in Italia quasi dieci volte di più. Il paesaggio che amiamo e apprezziamo, e di cui abbiamo anche bisogno come fonte di nutrimento e ristoro, è sul punto di essere annientato. 

In effetti abbiamo bisogno, oggi, di una nuova ‘città vecchia’, compatta e artificiale: un dispositivo per la vita umana e sociale che coltivi e mantenga un contrasto chiaro con la natura. Se vogliamo conservare la natura non dobbiamo confonderla e mescolarla con la città. Ciò naturalmente non significa che la città possa inserirsi senza riguardo nel paesaggio. Al contrario, la città deve ritirarsi nel suo proprio territorio, sviluppare margini netti, farsi densa e dura come pietra. Questo suo apparire ostile alla natura è in verità il modo migliore, più sincero e più efficace, per tributarle rispetto. 

Al tempo stesso la città non può e non deve essere un blocco di pietra o di cemento: per alleggerirla e renderla permeabile occorre progettare accuratamente e prioritariamente (e in un sistema di relazioni reciproche) gli spazi pubblici. La natura, da parte sua, non va totalmente bandita dalla città: tuttavia la natura nella città non è più autentica, bensì un surrogato. Giardini e parchi non sono pezzi di paesaggio ritagliati nel tessuto urbano, che in quanto tali non sarebbero nemmeno in grado di sopravvivere, ma imitazioni artificiali e metafore poetiche di quel paesaggio che, insieme agli edifici, essi stessi hanno contribuito a eliminare. Il Central Park di New York può apparire come un frammento superstite della natura che occupava l’area di Manhattan prima che fosse edificata; in verità è il risultato di una lunga, complessa e costosa trasformazione, che ha fatto di un terreno in parte paludoso e in parte roccioso una raffinata macchina ricreativa, sapientemente camuffandola da natura selvaggia. Anche gli alberi che fiancheggiano le nostre strade urbane si sono trasformati in elementi architettonici che spazialmente creano l’effetto di colonne e richiedono un’irrigazione artificiale come i vasi di fiori sui davanzali delle nostre finestre. 

Dovremmo allora tornare alla città ideale come la rappresentò Ambrogio Lorenzetti nell’affresco sugli Effetti del Buon Governo nel Palazzo Pubblico di Siena, costruita e densa, con le sue alte mura che la delimitano e dividono nitidamente dalla campagna circostante che la nutre e che forma il suo contesto? No, perché una città moderna non potrà più somigliare alla Siena dell’inizio del XIV secolo. Sì, perché proprio come la Siena di quel tempo essa costituisce un dispositivo eminentemente artificiale (e nel migliore dei casi artistico) volto ad assicurare agli esseri umani una convivenza confortevole, produttiva e auspicabilmente anche felice. 

Per costruire oggi una simile città è necessario ripensare la disciplina del progetto urbano insieme alle immagini di città alle quali tale disciplina si riferisce e che essa stessa ha creato. La crisi in cui l’urbanistica ha intrappolato se stessa nel preciso momento in cui ha creduto di poter abbandonare il rapporto con la progettazione architettonica, tridimensionale e spaziale, a favore di una crescente astrazione bidimensionale, e di doversi ridefinire come pianificazione urbana, ha portato, al più tardi negli anni Settanta del secolo scorso, al suo isolamento e sovente anche alla sua marginalizzazione. Nel vuoto aperto da questa sconsiderata smobilitazione è dapprima subentrata l’architettura. Evidentemente il fugace successo registrato da tale subentro non può dissimulare il suo carattere palliativo: le singole architetture, originariamente pensate come catalizzatori urbani, ci hanno insegnato a leggere in modo nuovo la città e i suoi dintorni ma non l’hanno trasformata su vasta scala. In quanto modelli da imitare e sviluppare, i monumenti degli architetti hanno fallito quanto i diagrammi dei pianificatori. 

Alla fine del XX secolo l’architettura del paesaggio si offrì di sostituire l’urbanistica che rimaneva ancora attonita nella sua protervia. D’un tratto furono i paesaggisti a disegnare non soltanto parchi e giardini, ma anche strade e piazze, lungomari e cortili. L’ingresso della natura nella città, celebrato già intorno alla metà dell’Ottocento, prosegue così in variazioni nuove, multiformi e talora sicuramente convincenti; tuttavia la città stessa ne risulta indebolita. Il moderno revival del paesaggio urbano del dopoguerra, che ultimamente il landscape urbanism diffonde con risvolti populistici, minaccia proprio quella urbanità che ormai ovunque viene reclamata a gran voce. 

I nuovi urbanisti dovranno collaborare strettamente con gli architetti e con i paesaggisti (oltre che con gli ingegneri, con i pianificatori del traffico, i sociologi e gli economisti), ma in quanto rappresentanti autonomi di una disciplina autonoma. Dovranno agire come progettisti e inventori, ma prima ancora come ricercatori e studiosi. L’urbanistica non è tanto colpo di genio quanto paziente costruzione su fondamenta in parte esistenti e in parte ancora da creare. Non a caso è una disciplina in cui ha da sempre prosperato la manualistica: dai trattati dell’antichità fino ai manuali del XIX e del XX secolo. Per tutti era meno importante fissare un canone funzionale ed estetico che mettere insieme, ordinare e sistematizzare un sapere sulla città al fine di renderlo disponibile. L’urbanistica, per quanto sempre e necessariamente creativa, è primariamente una scienza, sebbene una scienza senza assioma. Richiede, accanto a un momento inventivo, anche e soprattutto un lavoro metodico. 

Se la disciplina del progetto urbano vuole davvero rispondere sul piano teorico e su quello pratico ai rivolgimenti epocali che oggi, a causa della rivoluzione demografica, telematica e soprattutto ecologica, coinvolgono la città e il territorio, deve rivisitare con attenzione il proprio passato a partire dalle teorie che hanno già sistematicamente considerato analoghi sconvolgimenti; guardando ai modelli di architettura della città che ha prodotto fondandosi su queste teorie e che si sono rivelati validi; e studiando gli strumenti di pianificazione che tali modelli hanno saputo applicare con efficacia. La storia dell’architettura urbana è una memoria delle strategie pregresse che chiede di essere riscoperta e adattata alle esigenze del presente. 

La storia dell’architettura urbana è tuttavia anche qualcosa di più: coltivata con ragione critica è essa stessa uno strumento di critica operativa. Penetrando oltre le immagini urbane fino alle idee di città su cui queste immagini si basano, essa fornisce la chiave per legarle insieme. E con questa anche la chiave per valutare in modo fondato i progetti urbani contemporanei, compresi i propri. In altre parole: consente di prendere decisioni progettuali al di là di inclinazioni di gusto puramente soggettive e di preferenze meramente estetiche. 

Così l’architettura urbana esistente (realizzata ma anche solo disegnata o descritta) è potenzialmente entrambe le cose: materiale da costruzione e dispositivo per rapportarsi criticamente con quel materiale. Lo studio delle città del mondo consente di accedere a un thesaurus di elementi – strade, piazze, corti, gallerie, parchi, banchine e spianate – che, modulati in forme innumerevoli e spesso meravigliose, sembrano solo aspettare di essere misurati, rappresentati, analizzati, reinventati e messi in opera. Allo stesso tempo, mettendo questi elementi in rapporto con le condizioni che li hanno generati e con le conseguenze che hanno prodotto, questo studio fornisce i parametri per valutare la loro reinvenzione. Detto altrimenti: per progettare in modo più riflessivo. 

Perché in fin dei conti questo dovranno fare, come prima e più che mai, i nuovi progettisti urbani, le nuove progettiste urbane: disegnare città, parti di città, elementi di città, frammenti di città. Sono gli unici in grado di farlo. Sono gli unici che dispongono delle competenze per fondere in una forma concreta le moltitudini di informazioni, bisogni, desideri e aspirazioni riguardo alla città. In altre parole: sono gli unici che grazie al loro sapere disciplinare possono ricavare dalla analisi e dalla raccolta dei dati una configurazione fisica del tessuto urbano che raggiunga una sua propria autonomia e rappresenti anche un punto di vista personale della sua autrice o del suo autore. 

Le domande poste dalla contemporaneità non sono certo quelle del passato, così come non lo sono i mezzi tecnici per adempiere a tali domande. I risultati, di conseguenza, saranno necessariamente moderni: senza nostalgia del passato ma anche senza accanimento futurista. E soprattutto: i risultati riusciranno a saldare nuovamente la disciplina dell’urbanistica alla vita dell’uomo. Quella stessa vita cui la città ha sempre aspirato, e cui ancora deve aspirare, per accogliere, migliorare e arricchire. 

Quartiere richti, Wallisellen
Veduta della facciata su Ricthistrasse
Planimetria Quartiere Richti, Wallisellen
Isolato Ricthistrasse Magnago Lampugnani
Planimetria Audi Innovation Campus
Veduta Audi Innovation Campus
Planimetria centro di Bülach
Quartiere Bülach
Veduta piazza centrale Bülach
Veduta Campus Novartis Basilea
Planimetria Campus Novartis
Spazio relax Campus Novartis