Foto di Fortebraccio progettata da Alberto Meda e Paolo Rizzatto (1998)

Io e… Luceplan

Testo di Paolo Rizzatto

n.4 luglio/agosto 2019

L’architetto Paolo Rizzatto ripercorre per noi l’affascinante storia della Luceplan, da lui creata assieme a Riccardo Sarfatti e Sandra Severi, in un clima di totale partecipazione. Il pensiero che sostiene Luceplan coniuga la composizione con la ricerca tecnologica in continuo progresso, definendo un modo di lavorare sempre nuovo e stimolante. Numerose sono le loro lampade che hanno riscontrato grande successo al punto da entrare a far parte dell’immaginario collettivo contemporaneo

Nel mio lavoro di architetto ho sempre considerato il progetto di un edificio e la progettazione di un oggetto, come scale diverse di un unico mondo: un mondo in cui coesistono  la scala domestica dell’oggetto e la scala collettiva della città. Per me è una cosa naturale, nata dall’insieme della mia formazione, in particolare dal mio percorso universitario, e dall’esperienza maturata nelle lotte studentesche dove sono stato coinvolto e che a essa hanno contribuito in modo determinante. 

E dalle persone. 

Nella mia vita ho cercato di variare le mie amicizie, le mie conoscenze e i miei interessi, che andavano dal dettaglio al generale e viceversa. Ho conosciuto il mondo borghese e il mondo operaio, il laicismo e il mondo cattolico. Insomma, ho cercato sempre di ascoltare le voci di tutti e quindi quando mi occupo di un dettaglio penso all’insieme, quando ni occupo dell’insieme penso al dettaglio.

Qualche tempo fa mi è capitato di rileggere un testo di Plutarco, intitolato L’arte di saper ascoltare. L’ascolto non deve essere un ascolto passivo, è l’ascolto di chi ha dubbi, non ha certezze e cerca una strada. È dall’ascolto che prende origine quella che per me è la composizione: spesso le cose sembrano comporsi da sole, ma molto spesso no, sono in contrasto. La composizione è la capacità di fare in modo che questi contrasti portino qualcosa non di caotico, ma di funzionale, relazionale, che alla fine è bellezza, giustizia o verità.

Non vedo differenza tra pensiero e azione. Quando penso una cosa, cerco subito di capire come si possa fare, secondo quelle che sono le mie logiche, i miei sentimenti o le mie improvvisazioni: quella cosa può così andare avanti, svilupparsi in un percorso. Altrimenti si può fermare, bloccare, si può cambiare idea, tornare indietro e verificarla completamente. Questo è quello che mi dà la forza di andare avanti sempre a lavorare nel nostro bel mestiere.

Tutto deve nascere da un’idea di fondo, a priori, da sviluppare e rendere concreta. È proprio questo uno degli elementi che mi ha spinto a cimentarmi, con Riccardo Sarfatti, e Sandra Severi e  poco più tardi con Alberto Meda, nell’avventura di ‘Luceplan’. Dopo la laurea aprii uno studio con Antonio Monestiroli, si lavorava freneticamente ai concorsi, si lavorava notte e giorno, non si vinceva quasi mai, o si vinceva ma molto raramente si realizzava qualcosa. C’era una sorta di dicotomia tra quello che era nelle nostre menti, nei nostri scritti, nei nostri pensieri, nella nostra vita di tutti i giorni, nelle nostre aspirazioni e i nostri viaggi, e la realtà che ci circondava. L’occasione di poter realizzare in scala ridotta, dove il controllo era più semplice e non così complesso come quello sul territorio, ha fatto sì che sondassi altri percorsi.

È stato un processo che si stava già sviluppando con le esperienze nel campo dell’arredamento, e dei piccoli interventi edilizi. Si saggiava a scale diverse la giustezza di certi pensieri. Si è trattato di intervenire, di percorrere una nuova strada, e l’ho fatto partendo da zero; non c’è stato il contatto con un’altra azienda da cui è nata una collaborazione, ma si è creata un’azienda con degli amici con una storia simile alla mia. Persone con le quali avevo avuto un momento di contatto, catalizzante, dove io ho preso coscienza degli aspetti più legati al sociale e l’interesse non per l’oggetto ma per l’insieme.

Lì è venuta fuori anche la mia storia, che amo definire brianzola. Ancora prima di andare al liceo, mi sono formato in mezzo alle botteghe dei falegnami, dei fabbri e dei tappezzieri della Brianza: mio padre era medico condotto, mi portava con lui, e quando entravo in quelle botteghe vedevo il fervore del lavoro, sentivo gli odori dei legni esaltati dal fuoco che bruciava i trucioli e scaldava profumando i grandi ambienti operosi, vedevo le assi ma anche il prodotto finito.Ero affascinato da questo mondo, da queste persone che amavano il loro lavoro, che accarezzavano l’arte che stavano piallando. Ma andavo anche nelle settecentesche residenze di campagna dei ricchi signori milanesi, e lì vedevo delle altre cose: giardini magnifici, ordinati, sale affrescate, mobili raffinati. Ho avuto un’infanzia felice, che mi ha semplificato le cose: infatti, arrivato a Milano non mi sono perso davanti alla magnifica complessità dei nuovi rapporti universitari, alla ricchezza delle sollecitazioni, ma li guardavo con molta attenzione. 

Nel 1965, alla fine dei regolari cinque anni del corso di laurea in Architettura, un gruppo diversificato ma coeso si presentò per l’esame con Franco Albini con un progetto di ‘Nodo infrastrutturale’ alla periferia Sud di Milano. Il gruppo era composto da sei compagni di entusiasmanti esperienze condivise fra cui spiccavano quelli che sarebbero divenuti i più cari fra gli amici: Antonio Monestiroli, Riccardo Sarfatti e Sandra Severi.

L’avventura di Luceplan, come già detto, inizia una decina di anni dopo con la proposta di Riccardo Sarfatti. Riccardo, che era stato tra i più attivi esponenti del Movimento studentesco nelle lotte universitarie, aveva una formazione molto solida. Dopo la laurea aveva insegnato all’Università di Venezia e poi era entrato in Arteluce dove aveva fatto esperienza sul campo sotto la guida di suo padre. Quando poi Gino Sarfatti vende l’azienda alla Flos, Riccardo mal sopporta il rapporto di dipendente all’interno della nuova proprietà e concepisce l’idea di fare qualcosa. 

Quel qualcosa che voleva fare è strettamente connesso a tutte le nostre aspirazioni. 

Si tratta di lavorare nel campo della Luce e quindi dell’architettura, e dare un servizio che non c’è: un servizio da architetti agli architetti per progettare la Luce. In Italia in quel periodo il Light design non esisteva   –  si può dire che non esisteva il ‘Design’ tanto più per come lo si intende oggi   – 

ma in Nord Europa era una disciplina apprezzata e praticata. Le esperienze che Riccardo aveva maturate, soprattutto in Germania con Arteluce e con Flos, avevano creato molti contatti. Per non parlare del suo background familiare.
Per il resto si è trattato di un’esperienza comune partita da zero in un progetto totale, che ci coinvolgeva giorno e notte.

Era il 14 luglio 1978 quando, in uno studio notarile in corso Magenta a Milano, Riccardo Sandra e io firmammo l’atto di nascita di ‘Luceplan contract srl’.

Ricordo le lunghe e accanite discussioni per il nome da dare all’impresa che stava per nascere, alla fine, prendendo come punto di partenza  ‘Arteluce’ la decisione trovò la sua strada: Arteluce/Arte-Luce/si sostituisce Arte con Plan/Arte Plan/si invertono le due parole/Luceplan a voler indicare la nuova direzione che volevamo seguire: pianificare la luce, e mettersi al servizio degli architetti per progettare la luce dell’architettura, della città.

Per i primi lavori, sfruttando i contatti che Riccardo aveva in Germania abbiamo collaborato con alcuni studi di progettazione tedeschi. In accordo con gli architetti con i quali eravamo in contatto, lavorando al loro fianco fin dalle fasi iniziali del progetto architettonico, si concepivano, verificavano e producevano le proposte illuminotecniche che si materializzavano in manufatti, i quali ben presto hanno dato forma a un primo catalogo di prodotti.  Tutto è andato poi sviluppandosi in un contesto di totale partecipazione nella pianificazione, nelle decisioni: affrontavamo insieme tutti i problemi. Di fatto Riccardo si occupava a tempo pieno degli aspetti gestionali, finanziari, amministrativi, produttivi, commerciali, Sandra della comunicazione della grafica, dei rapporti con la stampa e io della progettazione e della realizzazione dei manufatti. Era un processo coinvolgente. Io, per esempio, non sono mai stato ufficialmente art director, ma di fatto facevo quella cosa che oggi si chiama art direction e che allora non era ancora un mestiere. 

Avevo l’idea di un punto luminoso che si muove nello spazio e porta la luce là dove serve. La prima lampada  – la 265 che avevo fatto nel 1973 per Arteluce – si spostava con libertà e assoluta semplicità, posizionandosi con un movimento morbido e bilanciato all’interno dello spazio di una stanza. Non era però né una lampada da terra, né da parete, né da soffitto: una lunga asta bilanciata dotata di una calotta parabolica orientabile su due assi permetteva di orientare la luce in tutte le direzioni, una nuova tipologia  nata dal desiderio di intercettare le mutate esigenze: le nuove tipologie abitative che tendono a comprendere in un unico spazio funzioni diverse (ingresso, corridoio, soggiorno, pranzo, studio.)  Quando dunque si è trattato di cominciare a dare forma e sostanza a un catalogo di prodotti nuovi per Luceplan ho continuato e approfondito la ricerca impostata.

La 265 era concepita per essere realizzata con le tecnologie artigianali della lavorazione del metallo introdotte dal Movimento moderno : tornitura in lastra, taglio e piegatura di trafilati in ferro. Utilizzava una tradizionale  lampadina da 100 watt a incandescenza  con attacco a virola E27 e un interruttore on/off a pulsante. La nuova lampada (che verrà chiamata D/7) invece si avvale di materiali, tecnologie e componenti più moderni: profilati e pressofusioni in alluminio, ammortizzatori a gas per il bilanciamento, cuscinetti a sfera per le rotazioni, interruttori in grado di variare l’intensità luminosa, ma soprattutto di una nuova lampadina alogena da 250 watt di dimensioni ridotte appena introdotta sul mercato e mai utilizzata prima per l’illuminazione domestica. Uno dei grandi vantaggi per chi lavora nel campo della Luce consiste nel fatto che, più che in altri settori, la ricerca scientifica nel campo delle fonti luminose, che sono il centro e il punto di partenza di ogni progetto sulla luce, è in continuo progresso e fornisce quindi una materia prima su cui lavorare sempre nuova e stimolante. 

Nel 1981 la D7 vince il ‘Compasso d’oro’ e, anche se la lampada non avrà un grande successo commerciale a causa del prezzo molto alto, ha contribuito in modo determinante a farci conoscere: ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori su di noi, sulla Luceplan, sui nostri prodotti innovativi. I responsabili delle altre aziende già affermate e le testate giornalistiche parlavano di noi. Anche se non avevamo risorse per finanziare la pubblicità le nostre lampade cominciavano a essere sempre più presenti sulla stampa e comparivano regolarmente nei redazionali dei giornali e delle  riviste specializzate, nelle mostre.  

E poi c’erano il Salone del Mobile e Euroluce……..era come un esame ogni anno. 

Però erano tutte esperienze molto belle, divertenti, coinvolgenti, fra amici che si stimavano e stavano bene insieme, e parlare tra noi del lavoro era un piacere. Cercavamo di cogliere il senso delle cose, e magari superare certi schemi, anche quelli che allora erano i più tipici di un’azienda tradizionale: facevamo quello che noi ritenevamo essere un prodotto giusto, innovativo e corrispondente alle nuove esigenze. Come per Costanza. È facile da spiegare il successo di Costanza e la sua persistenza: la qualità della sua luce!  Questa qualità è dovuta al fatto che riunisce in una sola lampada le tre forme di propagazione del raggio luminoso: diretto, indiretto, diffuso. La forma troncoconica del paralume infatti permette di indirizzare una luce diretta verso il basso, una minor quantità di luce indiretta verso l’alto, e una grande quantità di luce diffusa orizzontalmente, all’altezza degli occhi, eliminando i contrasti e gli abbagliamenti. 

La lampada Costanza semplifica e riduce al minimo la struttura e la sua forma: una base per stabilizzarla, un’asta telescopica per regolarne l’altezza e portare la luce al punto giusto, un sistema ridotto al minimo per sorreggere il paralume. Se da un lato si utilizzava una comune lampadina a incandescenza reperibile ovunque, l’innovazione si concentrava sul materiale del paralume un materiale nuovo, un metacrilato caricato vetro prodotto dalla Bayer. Il Makrofol ha qualcosa in più rispetto ai materiali già usati: diffonde in modo stupefacente la luce. Ma lo spessore di 0,4 mm con cui veniva prodotto in grande quantità dalla Bayer non era sufficiente affinchè un foglio appositamente fustellato, piegato e fissato alle sue estremità con dei bottoni a scatto mantenesse la forma troncoconica voluta. Alla fine la micro-azienda nata da poco riuscì a convincere i tecnici del grande gruppo chimico tedesco che il nuovo materiale prodotto per i cruscotti di aerei e automobili, se fatto con uno spessore maggiore di 0,6mm poteva essere di grande utilità e di grande consumo per l’intero settore produttivo: erano indispensabili enormi investimenti per un nuovo laminatoio, ma alla fine si convinsero. Noi ci mettemmo del nostro: un ordine che in quel momento valutavamo per un consumo di 10 anni. L’anno dopo abbiamo presentato la lampada a Euroluce e oggi a Luceplan non basta il doppio per la produzione di un anno, e il policarbonato è più utilizzato nell’illuminazione che non in altri settori.

Progettando Costanza – cosi come le lampade che l’avevano preceduta D1, D3, D5, D7, Sistemino, e quelle che l’hanno seguita al ritmo di una ogni 1/2 anni, Berenice, Lola, Titania, Lucilla, Bap, Metropoli, Lucilla, Orchestra, GlassGlass, Fortebraccio, Starled, Miranda, Mix, Ottowatt, Hope – ho sempre tenuto in considerazione il concetto di ‘composizione’ che è alla base del mio modo di progettare e che credo sia riconoscibile in quella che è stata la filosofia di Luceplan. Nel progetto di una lampada entrano in gioco svariate e diverse componenti: etiche, ecologiche, storiche, tipologiche, funzionali, d’uso, formali, tecniche, economiche, commerciali, comunicative. Queste componenti di volta in volta possono avere pesi e scale, dimensioni diverse. Le relazioni fra le diverse componenti sono complesse per qualità e variabili di numero, il progetto di ogni singola lampada prodotta da Luceplan ha cercato di fare chiarezza all’interno di ogni singola parte. Ogni lampada prodotta da Luceplan  ha  perseguito l’armonia delle parti fra loro e delle parti col tutto. 

Ma tutte le aziende, come le persone hanno un loro ciclo di vita: vengono concepite, nascono, si sviluppano, decadono e alla fine sono destinate a scomparire.

Il magnifico equilibrio su cui si reggeva il fenomeno ‘Luceplan’ ha incominciato a incrinarsi minato come spesso succede da una concomitanza di fattori diversi: le leggi economiche e il loro assurdo imperativo: continua a crescere o sei destinato a soccombere. Non ultimo: la globalizzazione dei mercati e i lunghi periodi di crisi per alcuni mercati strategici; alcune scelte avventate relative a prodotti o linee di prodotti; il fisiologico cambio generazionale così come la legittima aspirazione all’impegno politico che ha sempre caratterizzato ogni attività’di Riccardo e la lungimirante previsione di un prolungarsi eccessivo della stagnazione dei mercati. 

Per far fronte a tutti questi problemi e per salvaguardare il patrimonio umano e aziendale che si era andato creando nel corso di questa meravigliosa avventura si è a lungo pensato a quale porto sicuro affidare le sorti della nostra creatura.

E così il 27 maggio 2010, a Milano, in piazzetta Belgioioso nei saloni sfavillanti di un prestigioso studio internazionale di avvocati Riccardo, Sandra, Alberto e io abbiamo firmato l’atto di cessione della ‘Luceplan spa’ alla Philips.

Il testo è tratto da una conversazione tra Paolo Rizzatto e Nicola Di Battista, luglio 2019

L’architetto Paolo Rizzatto
Berenice di Alberto Meda e Paolo Rizzatto
Un’immagine della lampada 265
I soci fondatori di Luceplan
Disegni del negozio Luceplan a New York
Copertine e pagine del catalogo generale dei prodotti
Schizzi di studio di Costanza progettata da Paolo Rizzatto (1986)
Un disegno tecnico di Costanza
Foto di Fortebraccio progettata da Alberto Meda e Paolo Rizzatto (1998)
Disegni tecnici di Fortebraccio progettata da Alberto Meda e Paolo Rizzatto (1998)
Hope di Francisco Gomez Paz e Paolo Rizzatto (2009)
Hope di Francisco Gomez Paz e Paolo Rizzatto (2009)
Mix di Alberto Meda e Paolo Rizzatto (2005)