Mostra Cesare Colombo fotografo Italo Lupi

Io e… la grafica

n.5 settembre/ottobre 2019

Protagonista assoluto della grafica e grande innovatore nel campo della comunicazione, Italo Lupi ci racconta la sua lunga e complessa carriera, ricca di collaborazioni eccellenti e amicizie profonde con alcuni dei più importanti nomi dell’editoria, del design e dell’architettura contemporanea. Testimone e infaticabile attore di quella intelligenza progettuale che si è sempre battuta contro il pensiero debole delle mode e degli eccessi, ancora oggi in campo per consegnare alle nuove generazioni un’eredità e una speranza piene di colore

Mio padre era funzionario di banca e a ogni scatto di carriera, come allora succedeva e forse ancora accade, cambiava sede e città. E così, fino agli anni del ginnasio, siamo stati nomadi, abituandoci a case differenti e sperimentando nuove città: Cagliari, Trieste, Bologna, Mantova, Pavia, Milano. 
La vera esperienza che ha formato la mia educazione civile è stato il periodo della guerra. Bambino, ho cominciato a capire la differenza tra il bene e il male. Abbiamo fatto, con i miei quattro fratelli, due anni di sfollamento in un piccolo paese delle Langhe, in Piemonte. Abbiamo abitato nella casa di mio nonno, una villa di stile francese, fuori dall’abitato, in un paesaggio davvero unico.
Ma l’esperienza vera è stata apprezzare il coraggio dei miei genitori, che per più di due anni hanno nascosto e ospitato sei amici ebrei, sfidando le ‘grida’ appese ai muri che promettevano la fucilazione per chi copriva queste cose. Ogni giorno si vedevano sulle colline i combattimenti tra i partigiani autonomi e i tedeschi, e frequenti erano i rastrellamenti di fascisti e SS. Questa villa è stata l’incantato luogo di vacanza per tutta la mia adolescenza. E in questa casa, passavo pomeriggi nella stanza ‘blu’. Dalla finestra vedevo solo la geometria delle vigne e il selvaggio densissimo dei boschi. 
Era una piccola e ricca biblioteca, le pareti ricoperte di vecchi libri, di vecchie riviste. Era quasi inebriante sfogliare le annate di Emporium con i primi esempi di arte nuova e moderna, e molte riviste francesi. Soprattutto un’annata della rivista satirica tedesca Semplicissimus di grande eleganza e con una grafica fortissima che mi ha abituato a un utilizzo libero e gigante dell’architettura. Ricordo poi l’arrivo degli americani dopo la Liberazione: una cosa straordinaria, perché era un cambiamento sostanziale del modo di intendere la vita. Ricordo l’aria allegra e informale di questi nuovi soldati, la loro modernità, i loro incredibili mezzi meccanici. E ricordo le riviste, certo propagandistiche, ma di alta e civile qualità. Gli inglesi con Eco del Mondo (poi sarà impaginato da Bruno Munari); gli americani con Victory, che ospitava addirittura fotografie della famosa Farm Security Administration rooseveltiana. Spulciare queste riviste mi ha sicuramente formato, perché ogni tanto torno con il pensiero a quelle pagine che pochi altri conoscevano. In pochi avevano Emporium, in pochissimi avevano sfogliato riviste straniere a grande diffusione, come Mademoiselle, o Punch
Già dal liceo ho sempre pensato di voler fare l’architetto. Ma arrivato al momento di decidere, la guida del Politecnico mi aveva spaventato: geometria descrittiva, analisi matematica, meccanica razionale. Ho avuto mesi di incertezza, poi ho deciso e ho iniziato il percorso universitario al Politecnico di Milano. Lì ho avuto la fortuna di incontrare tre compagni di scuola straordinari, che erano Mario Bellini, Roberto Orefice, e Oscar Cagna. Con loro ci siamo legati in un rapporto molto stretto che è durato anche dopo la laurea.
Del Politecnico ricordo i miei maestri: ovviamente, Ernesto Nathan Rogers, con cui mi sono laureato, ma anche Franco Buzzi Ceriani e Vittorio Gregotti. Di Gregotti ricordo la sua urgenza di spiegare le cose, che si concretizzava fisicamente nell’irrequietezza nervosa delle mani. Era bello ascoltarlo perché raccontava storie di esperienze internazionali e di nuovi mondi. 
Durante il periodo del Politecnico, al pomeriggio spesso saltavo le lezioni e frequentavo la tipografia Neograf, una piccola officina che stampava la collana Universale economica Feltrinelli di Albe Steiner. Andavo lì per l’atmosfera da laboratorio, per sentire l’odore degli inchiostri e parlare con gli operai che mi facevano fare dei piccoli lavori: ho imparato tante cose che mi sarebbero poi servite molto nella professione.
Ho avuto per così dire una doppia formazione, una accademica, universitaria, e poi questa formazione pratica. 
Un giorno, appena laureati venimmo a sapere che Augusto Morello (il primo ‘scienziato’ del design) cercava un art director per l’Ufficio Sviluppo de La Rinascente: con Mario Bellini e Roberto Orefice ci siamo presentati come tre piccoli e inesperti cervelli, che potevano fare questo lavoro con lo stipendio di una persona, ma talmente alto che bastava comunque per tutti e tre. Avevamo ventisei o ventisette anni. 
L’Ufficio Sviluppo de La Rinascente era un polo di attrazione per tutto un mondo intellettuale e professionale: c’era Giulio Carlo Argan che veniva a trovare Morello, c’era Aldo Ballo, c’era il fotografo Libis, c’era Adriana Botti, Iliprandi, Amneris, Latis, c’erano tutti i grandi fotografi e i grandi grafici. Noi lavoravamo all’ultimo piano e sporgendo la mano potevamo toccare le guglie del Duomo: un luogo la cui bellezza mi è rimasta scolpita negli occhi. Era un posto che dava un certo orgoglio, anche professionale, perché La Rinascente era all’epoca al culmine della brillantezza intellettuale e professionale, esagerando un po’, come alla Olivetti, dove tutte queste intelligenze lavoravano assieme. 
Finita l’esperienza al La Rinascente e l’esperienza di progetti di urbanistica, con Oscar Cagna ho aperto un mio piccolo studio, intorno alla metà degli anni Sessanta. Fu il periodo in cui incontrai Piera Peroni: una donna intelligente che aveva fondato la rivista Abitare. La Peroni voleva dedicare un numero a un progetto per una stanza pensata per un giovane e realizzata da ragazzi appena laureati. Io feci un progetto con solo bauli e valigie.
Piacque molto e la Peroni mi chiamò proponendomi di collaborare con la rivista. Dopo qualche tempo mi propose di diventarne art director: voleva passare al rotocalco poiché fino ad allora la rivista veniva stampata in tipografia e non con regolarità. All’inizio fui titubante, avevo il mio studio e mi spaventava l’idea di essere incardinato in un’altra struttura, ma alla fine accettai. 
Abitare anche allora era una rivista serissima, con degli interessi sociali notevoli. La redazione era in una singolare palazzina al Parco Sempione. Una redazione tutta femminile, escluso il sottoscritto ed Enzo Gentili Tedeschi come consulente. Era un posto di grande lusso, c’era la guardarobiera che prendeva i cappotti, li spazzolava, e a metà mattina serviva una colazione, c’era un tavolo da ping-pong dove si giocava. Era tutto molto bello. La rivista andava benissimo perché la Peroni aveva capito che era il momento giusto per fare un prodotto editoriale rivolto all’architettura degli interni. Alla direzione di Piera Peroni è seguita quella lunga e vivace, ma rigorosa, di Franca Santi, una grande amica che mi ha riconfermato nell’incarico. Poi è intervenuto un nuovo editore, Renato Minetto. Un uomo dai forti entusiasmi e dalle critiche severe, con cui è stato bello lavorare. Circa dieci anni di art direction con un ruolo allargato come suggeritore redazionale. Un lavoro allegro e formativo: Abitare è stata la mia seconda scuola. 
Agli inizi degli anni Settanta ci fu un episodio importante per la mia maturità professionale. Con altri tre neolaureati, tra cui il giovane urbanista Giulio Redaelli, consapevoli dei cambiamenti territoriali e architettonici che lo sviluppo dei grandi centri commerciali avrebbe comportato, ci inventammo una rivista che di questi temi doveva occuparsi: Shop. È stata una forte palestra sperimentale: di formato molto allungato, stampata eccellentemente, con una tipografia molto forte e nuova, grazie all’influenza della tedesca Twen e dell’inglese Nova, fatta dal mio amico David Hillman. Nova era una rivista molto libera, che giustificava l’amore di mia moglie Maria Luisa e mio per la storia e la cultura inglese. Letteratura, politica e grafica si sposavano su un territorio che sarebbe stato nostro per più di quaranta anni. 
Di tutte queste esperienze ho potuto tener conto, fatte le debite proporzioni, quando mi sono stati affidati incarichi più impegnativi, prima come art director di Domus (diretta da Mario Bellini) e poi come direttore responsabile e art director di Abitare.
Nel 1986, mi contattò il mio vecchio amico Bellini, appena nominato direttore di Domus, e mi chiese di diventare l’art director della rivista. Accettai anche se ero preoccupato per l’importanza dell’incarico. Adesso posso dirlo con il sorriso, ma nelle notti prima di iniziare a fare il primo numero mi sono svegliato sperando di non essere io quello che avrebbe rovinato Domus! Questa duplice veste, forse allora un po’ ambigua, mi faceva guardare, con timido rispetto e distanza, i grandi maestri della Scuola Milanese. Certo, poi è arrivato anche il riconoscimento internazionale. Ricordo che Bob Noorda, con affetto e generosità, mi fece candidare e accettare come socio dell’Agi (Alliance Graphique Internationale): un grande prestigio, eravamo novanta soci in tutto il mondo. E anche lì mi sentivo piccolissimo, ed era bello andare ai congressi con i migliori al mondo, ormai amici.
Dopo l’esperienza in Domus, nel 1992 mi furono affidati incarichi come direttore responsabile e art director di Abitare. Ma tutto nel mondo era cambiato e c’era la necessità di un rinnovamento capace di una spregiudicata apertura verso nuove culture e nuove forme di espressione, presagio della globalizzazione culturale che in quegli anni avrebbe offerto frutti dirompenti, di cui bisognava dare conto, sapendo distinguere dove c’era vera intelligenza progettuale e dove solo il pensiero debole delle mode e degli eccessi.
Così abbiamo cambiato la rivista, pur mantenendo vivissimo il ricordo della sua storia, della sua serietà e della sua indipendenza. E così i sedici anni di direzione di Abitare sono stati, per me, straordinari anni di sperimentazione e generosità editoriale (aiutato da una redazione vivissima, intelligente, colta e fertile), ma soprattutto una palestra dove, unici, abbiamo ospitato nuovi germogli di giovani e sconosciuti progettisti (architetti, fotografi, illustratori, scrittori) da noi portati alla gloria di oggi, e dove abbiamo riaffermato l’importanza storica di grandi maestri dimenticati e, su quelle pagine, riportati alla luce.
Non solo l’editoria in quegli anni, ma anche l’affermarsi della grafica e perciò della comunicazione di quella Scuola Milanese ricevevano un riconoscimento universale di eccellenza. Oggi, superato il nostro pregiudizio, ma anche i danni portati da un uso del computer prepotente e incontrollato (le inutili deformazioni di bellissimi caratteri tipografici, i margini non più rispettati, la complicazione sterile di una comunicazione resa illeggibile) c’è, anche tra i più giovani, una maturità nuova, una conoscenza della storia della tipografia, un sapere diffuso che anche in Italia mi pare ormai affermato su tutto il territorio. Anzi, quasi privilegiando zone provinciali e terreni lontani da quella capitale del progetto che una volta era solo Milano.
E oggi, dobbiamo riconoscere che quelle violenze organizzate via web sul disegno di caratteri tipografici, strizzati o espansi, privati delle grazie, deformati, hanno comunque portato, negli anni, a un disegno di nuove font, non prive di una loro eccentrica eleganza e intelligente usabilità.
E così si deve dare atto a quei ragazzacci, armati di affilati strumenti digitali, di aver saputo inventare una nuova raffigurazione, dotata di eccezionali doti nell’elaborazione di concetti tradotti in immagini spesso iconoclaste e fastidiosamente innovative.
Questo a riprova che le rivoluzioni sono sempre benefiche, se sanno abbandonare i velleitarismi infantili, spesso troppo ambiziosi e ingenui.
E noi, dobbiamo saper cogliere i segni del futuro ed essere consapevoli che una nuova generazione molto vitale preme alle porte e parla linguaggi nuovi, forse difficili da capire, ma pieni di interrogativi, di domande su un futuro che è certo complesso ma sul quale tutti noi, generosi ottimisti, siamo pronti a scommettere per consegnare un testimone pieno di colori e di solida incertezza.

Mostra Cesare Colombo fotografo Italo Lupi
Autobiografia grafica Italo Lupi
Copertina rivista Nova Italo Lupi
Copertina rivista Fortune Italo Lupi
Copertina rivista Twen Italo Lupi
All in Line di Saul Steinberg Italo Lupi
Copertina rivista Humor nel Mondo Italo Lupi
Copertina numero 321 Abitare Italo Lupi
Copertina numero 128 Abitare Italo Lupi
Rivista Zodiac Olivetti Italo Lupi
Copertina rivista Shop Italo Lupi
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Leaftel International Design Aspen Conference Italo Lupi
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Manifesto per l’Esposizone di Moda Italiana Pier 88 Italo Lupi
Manifesto Steven Guarnaccia Italo Lupi
Copertina Domus 1986 Italo Lupi
Copertina Domus Italo Lupi
Mostra Cesare Colombo fotografo Italo Lupi
Museo Storia della città Bologna, Mario Bellini, Italo Lupi
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Latin Lover Italo Lupi