
Io e… il segno
n.6 novembre/dicembre 2019
Il maestro marchigiano, infaticabile pittore e disegnatore, ripercorre le tappe della sua straordinaria attività artistica, dalle scenografie di opere teatrali, ai tanti ritratti di celebri personaggi e ai dipinti di paesaggio diventati nel tempo la sua dolce ossessione con cui conoscere e raccontare il mondo. La perenne ricerca del segno accompagna tutta la sua opera, al punto da studiare un paesaggio come fosse un volto, o guardare un volto e pensarlo come un paesaggio
Vorrei provare a parlare dell’insieme della mia attività cercando di dare unità a un percorso che altrimenti potrebbe apparire molto frastagliato ma che – spero emergerà dal mio breve testo – ha qualcosa di unitario nel suo girovagare. Ed è appunto di questo percorso personale, delle mie strade interrotte, che vorrei provare a parlare, anche perché, non essendo un teorico, preferisco partire dalle mie esperienze. Sono anche poco abituato a usare le parole per esprimermi, mi trovo meglio con le matite e i pennelli.
Io, da Ascoli Piceno, dove ho frequentato le scuole medie e il liceo classico, mi ero iscritto, per accontentare mio padre, alla Università di Urbino. Studiavo Legge, anzi Giurisprudenza, come mio padre voleva che dicessi. In realtà ero più spesso con le carte e le matite, che non con i volumi consigliati dai professori universitari.
In quegli anni non facevo quasi altro che dipingere, sfruttando una capacità spontanea e naturale che sentivo di avere nelle mani, di tradurre in immagine quello che vedevano i miei occhi. Guardavo molto la pittura, mi affascinavano i disegni sui libri, leggevo i fumetti, ma facevo attenzione soprattutto a come erano disegnati, quasi trascurandone le storie. Per me tutto aveva come base e origine la pittura, la grande pittura, quella del passato soprattutto. Mi sarebbe piaciuto sfogliare libri illustrati da Vermeer e fumetti disegnati da Rubens. Tutto sempre mi riportava ai grandi pittori. Se penso a una delle lezioni fondamentali che ho ricevuto, penso alle acqueforti di Rembrandt. È lì che ho imparato a distinguere un segno da un altro suo simile, ho capito come si incrociano le linee, come riconoscere quelle sapienti e quelle sorde, l’importanza della lentezza e della finta velocità nel tracciarle, come esercitare la leggerezza nella pressione. Lì ho imparato ad avvicinarle e confrontarle, come dare loro anima e pensieri. Non perché io creda che una linea debba per forza esprimere pensieri, ma perché credo che debba mostrare che chi l’ha tracciata in quel momento stava pensando, stava compiendo in qualche modo un’esplorazione.
Apparentemente disegnavo quello che mi era attorno, le facce che vedevo, gli interni nei quali vivevo, le colline che circondavano il paese nel quale sono nato, le cose che avevo sottomano e sotto gli occhi. In effetti, creavo una realtà parallela, che aveva una sua coerenza e un suo vivere indipendente dagli spunti di partenza, cioè mi costruivo con le matite e coi pennelli un mondo nuovo, intenso e mio, nel quale abitavo con più agio, con meno infelicità che in quello reale. Provavo a picchettare uno spazio sulla carta tutto diverso dallo spazio che vedevo. Ma già da allora, in modo forse non ancora ben chiaro, cominciavo a sentire i limiti del mezzo espressivo che avevo adottato. All’interno di esso e delle sue specificità capivo, prima ancora di inoltrarmici, che avrei dovuto fare delle scelte, privilegiare alcune cose a danno di altre, scartare, comprimere, selezionare. Ogni volta finito quello che avevo cominciato, sentivo che era monco, che mancava di qualche cosa.
È da lì che è iniziato un percorso un po’ smarrito ed è cominciata la ricerca di una presa di possesso di ciò che sembrava sfuggirmi. Perché pensavo che probabilmente, se non sicuramente, era colpa mia, della mia limitatezza, se ogni cosa, una volta compiuta, sembrava aver lasciato fuori, o nel suo interno, o da qualche altra parte, una quantità di cose che avrei voluto dire, che avrei voluto esprimere. E che mi sembravano assolutamente indispensabili. Il timore di soccombere alla sconfitta cominciava a profilarsi fin da allora.
Nasceva, senza nome, una condizione che poi mi ha sempre accompagnato: una sensazione di disadattamento. La condizione di chi si sente inadatto ai limiti che ciascun mezzo espressivo, abbracciato di volta in volta, per sua natura impone. Sentivo la scomodità e l’inadeguatezza di ogni strumento a farmi esprimere con sufficiente completezza. In questo modo il mio lavoro si è organizzato per grandi cicli; ne finivo uno che mi sembrava esaurito e ne cominciavo, dopo un’incubazione anche lunga, un altro, nel quale mi inoltravo come un alunno, apprendendo codici nuovi, nuovi gesti e nuove tecniche.
Ho disegnato tanto. Ho cominciato con la caricatura dei miei professori di liceo e col disegnare i gessi della pinacoteca di Ascoli. Poi ho fatto ritratti, disegni politici, ritraendo i protagonisti di quel mondo fra gli anni Settanta e Ottanta. Ho progettato sigle per la televisione, illustrato e pubblicato libri, ho collaborato a riviste e quotidiani. E mi sono anche detto, a un certo punto, con molta convinzione, che avrei fatto “il pittore sui giornali”, non il disegnatore, o l’illustratore, il pittore. Con questa parola mi riferivo a quella completezza espressiva cui tendevo, che non doveva sottoporsi ai limiti di un’arte applicata. O più semplicemente pensavo di poter fare opere che invece di essere in gallerie o musei, potessero occupare le pagine dei giornali. E ogni volta nel fare un disegno – in ogni sua forma – io sentivo la mancanza della cosa più bella che invece la pittura possiede ed esibisce. La sua pelle. Una pellicola di cui la pittura vive, che risente e comunica i moti sottostanti e li trasmette in superficie nell’aspetto di forme e di colori. Mentre il disegno stampato sulla carta dei giornali e dei libri soffre di condizioni di riproducibilità mai uguali a se stesse, incontrollabili, arbitrarie, ma soprattutto non mie.
Ripensandoci, questa mia condizione di disadattamento portava con sé anche dei privilegi, dei vantaggi e degli stimoli. Mi obbligava, e quindi mi consentiva, una fertile contaminazione tra generi. Una pagina di giornale era come un palcoscenico da vestire. E il palcoscenico era come una tela bianca ancora da cominciare. Potevo portare il segno grafico nella pittura, facendo il gesto della penna a china con il pennello sulla materia pittorica, o la pittura nel disegno grafico, con impasti altrimenti impossibili. Potevo studiare un paesaggio come se fosse un volto. O guardare un volto sino a pensarlo come un paesaggio, raccontandone gli smottamenti, le frane, i cedimenti, le anse e i dossi, i solchi e le rovine.
Fare il ritratto di un autore per me è andare a cercare sul suo volto le parole che ha scritto, le storie che ha raccontato, le idee che ci ha trasmesso, i luoghi che ha descritto. Nel fare il ritratto di Beckett ho immaginato di vedere il suo volto emergere da un muro scrostato. Come mi succedeva da bambino di immaginare figure che apparivano dalle muffe dei muri, dalle screpolature, dalle crepe. Non si può escludere tuttavia che nella sua faccia si possano rintracciare anche paesaggi, colline, alberi, fossi, canali, tracciati di strade.
E a me, che nei ritratti sembra di raccontare, dei personaggi, una biografia diversa da quella ufficiale, una sintesi visiva, una sorta di faccia-riassunto, forse serviva un passato in cui raccontavo per disegni, in cui il mio pensiero si formava e si metteva a fuoco per concatenazione di immagini. Venivano fuori delle facce che cercavano di assomigliare al volto vero, ma tentavano anche di essere ancora più vere perché pretendevano di raccontarne la storia. Il tratto di strada che sto percorrendo adesso, il ciclo nel quale sono impegnato, l’ennesima svolta di un percorso che mi fa andare avanti, o di lato, o indietro, chissà, è una ricerca su certi dipinti di paesaggio. In realtà si tratta per me di un ritorno a un tema che non ho mai abbandonato, che ho trattato in periodi diversi, ora in forma di racconto, ora in modo più astratto, risentendo delle lezioni di Paul Klee.
In altre occasioni passate, alla maniera dei maestri antichi, ho dipinto paesaggi alle spalle dei personaggi di cui facevo il ritratto. Ci sono poi stati anni, i primissimi, in cui ero impegnato in un ciclo di dipinti che chiamavo “geologie”. Erano sezioni di paesaggio in cui ero interessato non alla superficie, ma alle sue stratificazioni più profonde, al mistero che sta sotto la pellicola della Terra. Di quelle geologie – e forse anche di Klee – qualcosa è riemerso in questi ultimi quadri, e nei paesaggi di oggi, anche se si chiamano ancora ‘Coltivazioni’, ‘Vedute’, ‘Pianure’, il riferimento alla natura che ne ha occasionati i titoli è piuttosto lontano. Sono opere meno letterali di quelle di una volta, più nutrite di segni e di materia, nelle quali inseguo una sinistra vitalità con inquietudine e impazienza. Ma anche con rassegnazione.
C’è una frase che ho incontrato in un testo di Pessoa che ritorna con insistenza alla mia memoria, appena comincio a lavorare, come quei ritornelli che non ci lasciano. E che spiega parte del mio disadattamento. Scrive Pessoa: “La natura è parti senza un tutto”. Mi chiedo, le cose che sto dipingendo sono parti senza un tutto? E il paesaggio è composto di parti senza un tutto?
È stato qualche volta parte di un tutto? In che momento si è separato? E se è così, dov’è il punto di inizio, il primo tratto della separazione?
Che cos’è questo tutto che non c’è e che ci manca, o forse mi manca? Perché cerchiamo un tutto? Certo sono domande antiche. Tuttavia continuo a chiedermi, davanti a un quadro finito, è un tutto o è fatto di parti? A volte è indubbiamente un tutto e a guardare bene scopro che parti di esso sono vere e proprie parti di un tutto. Altre volte invece sono davvero parti che non stanno bene nel tutto.
E il tutto continua a ritornare, assente e severo. Un quadro separa una parte dal tutto.
Ogni quadro delimita qualcosa da qualcosa d’altro. Vuol dire allora che il tutto gli è attorno, che lo circonda su tutti e quattro i lati; è la parte che non si vede, che non c’è ma che aspetta di esserci. Quindi per ogni quadro fatto ci sono altri quattro quadri ancora da fare, uno per ogni lato della tela. E per ogni quadro di ogni lato, altri quattro quadri per quanti sono i lati. E così via, moltiplicandosi. Mi sento costretto a non smettere mai di dipingere.
Il lavoro dell’artista assomiglia molto a quello di un uomo che, davanti a una porta, dopo molti tentativi, trova finalmente la chiave giusta per aprirla e andare di là. Ma poi trova un’altra porta ancora e finalmente riesce ad aprire anche quella, e poi una terza, e così a poco a poco si accorge che le porte da aprire sono infinite.
Così avviene nella pittura. L’autore guadagna questa consapevolezza con un’attività di cernita, di selezione, di scarto. Credo che la ricerca dell’artista sia il tentativo ingenuo, addirittura infantile, di scoprire cosa c’è alla fine di tutte quelle porte sapendo però molto bene che le porte non finiscono. Ogni volta che trova una nuova chiave è come se venisse alla presenza di un segreto, come se fosse vicino a una grande scoperta, e sente sempre più di appartenere a quella lunga sequenza di porte che è la natura stessa. Ha la bella sensazione di sentirsi accettato, di far parte di quel processo, solo apparentemente senza senso, e quindi si sente integrato e accolto in quella natura in cui è nato, vive e morirà.
È un gioco esaltante e senza fine allo stesso tempo. Ma è un gioco che, riportato al mondo reale, sempre più rivela all’artista il suo disadattamento. Che vuol dire sentire la propria inadeguatezza. Una inadeguatezza che si avverte ancora di più se si lavora in solitudine, se non si fa parte di un gruppo o di una corrente, se non si partecipa alle ultimissime tendenze dell’arte e alle manovre del mercato. Ma vuol dire anche trovare da soli gli strumenti della propria ricerca, della propria espressione e ossessione senza mai tradirla. Senza peccare mai di insincerità.
Io, dentro il mio dipingere, metto il piacere di trasformare in pittura la bellezza del mondo usando i graffi del disegno come antiche cicatrici di un volto, i solchi del pennello, la sapienza dell’impaginazione, la capacità di leggere con gli occhi le relazioni e gli alfabeti presenti nella natura, con l’inquietudine di chi sa che tutta quella somma di esperienze che è alle sue spalle non è stato un cammino verso il tutto, ma un continuo accumulo di parti, di parti che non hanno un tutto. E quando rivendico una coerenza, nelle varie stazioni di un percorso apparentemente intessuto di andirivieni, è una coerenza fatta di disadattamento, di lotta contro i limiti, contro la scarsa espressività di oggi delle arti figurative.
In questo percorso mi sembra, ricordando la lezione del vecchio Hokusai, di non aver fatto altro finora che allenarmi, prepararmi, iscrivermi a corsi, a scuole serali, a facoltà universitarie. Ricordo un sogno da ragazzo in cui mi dicevo: “Sarai un pittore quando tenendo in mano un grande pennello, saprai disporvi sopra i colori in modo tale da poter compiere l’opera che hai in mente con un unico gesto”. Questa sintesi estrema spero prima o poi di raggiungerla.
Il testo, rivisto dall’autore, è tratto da una sua conferenza tenutasi alla Scuola Normale Superiore di Pisa su invito del professore Salvatore Settis











