
Il pittore e gli architetti
Testo di Mario Radice
n.6 novembre/dicembre 2019
Una piccola e importante mostra su Mario Radice, tenutasi recentemente alla Pinacoteca di Como, ci permette di ricordare il lavoro pittorico e plastico dell’artista comasco, pubblicando alcune pagine del suo libro manifesto Memorie del primo astrattismo italiano degli anni ’30 e ’40. Il testo e la mostra ci riportano allo straordinario clima culturale vissuto a Como all’inizio del Novecento, con i suoi protagonisti artefici di un serrato rapporto tra arte e architettura
Parlerò dapprima del cosiddetto ‘Gruppo Como’: non perché abbia preceduto quello di Milano o altri gruppi italiani; ma perché queste mie semplici annotazioni non rimangono altro che ‘memorie’; non hanno affatto la pretesa, insomma, di essere la storia dell’astrattismo italiano degli anni ’30 e ’40.
Dal punto di vista organizzativo (o burocratico) il cosiddetto ‘Gruppo Como’ non è mai esistito, tanto è vero che la sua prima manifestazione (postuma) è stata la mostra organizzata da Alberto Longatti alla galleria San Fedele di Milano nel marzo del 1972. È esistito di fatto e soltanto saltuariamente.
Il primo nucleo del gruppo fu di tre amici: Terragni, Rho ed io, due pittori e un architetto. Rho ed io eravamo amici dalla prima infanzia, avevamo studiato pittura insieme da quando eravamo ragazzi di 12 o 13 anni sotto la guida di Achille Zambelli pittore e di Pietro Clerici scultore, due indimenticabili maestri per il loro ottimo insegnamento. In quel tempo remoto (1910-1918) i nostri maestri erano entrambi ancora giovani, oriundi da pochi anni dell’Accademia di Brera e pieni di entusiasmo.
Rho ed io non eravamo gelosi l’uno dell’altro: ognuno stimava l’altro, ognuno sentiva di avere inclinazioni diverse e, naturalmente, diverso timbro di voce. Ancor prima della laurea Giuseppe Terragni era già con noi, più anziani di lui. Con chi altri poteva unirsi nella Como di allora? I veri architetti non frequentano i futuri eventuali clienti, ma gli artisti loro colleghi. Io ero il più anziano dei tre e Terragni il più giovane; io ero il più libero dei tre, ero stato due anni nel Sud America, avevo girato mezzo mondo, viaggiavo frequentemente, mi recavo sovente a Parigi, conoscevo bene Basilea, Colonia, Düsseldorf; avevo lo studio a Milano e frequentavo (ovviamente) la galleria del Milione, il cui allestimento era stato affidato dai fratelli Ghiringhelli ad un altro comasco: l’architetto Piero Lingeri.
Per guadagnare il pane io davo lezioni private e mia moglie Rosetta insegnava matematica al liceo classico; Rho dirigeva, con un orario piuttosto gravoso, la sezione ‘Disegni per tessuti di abbigliamento’ della ditta Aliverti e Stecchini di Como.
Le prime discussioni intorno all’astrattismo nacquero al ‘Milione’. Partecipava alle discussioni Maria Cernuschi, moglie di Gino Ghiringhelli e animatrice impareggiabile. A Milano il più autorevole, e giustamente stimato, era indubbiamente Mauro Reggiani; io facevo la spola fra Milano e Como. Sembrava facile entrare nell’atmosfera dell’astrattismo.
Ma gli architetti erano ostili forse perché loro stessi, senza volerlo e senza saperlo, eseguivano già disegni astratti quando ideavano sezioni e planimetrie di edifici. Rho ed io assistevamo sovente alle discussioni, davanti ad assonometrie e sezioni, tra Terragni e Lingeri che erano amici e, a Milano, avevano lo studio in comune. Noi pittori dicevamo: “questa è più bella di quest’altra”. Bella? Poteva essere ‘bello’ un disegno geometrico come la sezione o la planimetria di un edificio che doveva corrispondere a ben determinate funzioni? Coloroche ignorano completamente il problema di architettura rimangono quasi negati alla comprensione, non dico dell’arte astratta, ma di ogni ramo delle arti plastiche.
Anch’io a Milano (ed a Parigi) ebbi, sulle prime, molte discussioni accese, specialmente con Gino Ghiringhelli, nel suo indimenticabile studio in soffitta, presente Maria Cernuschi, fin da allora entusiasta e favorevole al nostro nuovo indirizzo.
Alcuni mesi dopo anche Rho ebbe discussioni violente con me, ma a poco a poco si convertì. Terragni sulle prime dava ragione a Rho, poi si convertirono entrambi; Terragni ultimo, probabilmente perché molto amico del pittore Mario Sironi e di altri artisti del gruppo del ’900 Milanese. Analogamente Baldessari, Figini e Pollini, tanto valenti ed entusiasti nel campo dell’architettura nuova, non lo erano affatto di fronte all’astrattismo, forse perché legati da sincera amicizia con ottimi artisti coetanei come Del Bon e Spilimbergo ed altri postimpressionisti.
Tutti erano contro di noi: familiari (per i mancati guadagni), parenti, amici, colleghi. Il vuoto pneumatico era fermo attorno a noi e noi ce ne fregavamo perché vivevamo di speranza e qualche opera valida veniva indubbiamente alla luce. La critica: niente, silenzio assoluto, da cimitero, salvo qualche rara eccezione, ma completamente priva di risonanze.
In questo clima, in questo silenzio di tomba, fra il 1932-’35 e ’36 nacque il primo astrattismo italiano a Milano intorno al ‘Milione’ (Mostra di Reggiani, Ghiringhelli e Bogliardi nel novembre 1934 e manifesto dell’astrattismo italiano) ed a Como con le decorazioni interne (affidate a me) della Casa del Fascio (1932-36) che fu inaugurata nel 1936.
Un giorno venne a Como Lucio Fontana a visitare la casa di Terragni non ancora ultimata; io stavo eseguendo uno dei grandi affreschi nel salone del Direttorio. Davanti a Terragni ed a qualche amico comune Fontana esclamò: “Ti invidio davvero”.
E Terragni, di rimando: “Finalmente un amis che parla ciar, senza tanti ball”. Questa frase non la dimenticherò: il destino, anzi, la Provvidenza, mi aveva collocato fra due grandi artisti.
Testo tratto da: Mario Radice, Memorie del primo astrattismo italiano degli anni ’30 e ’40, Capitolo I, Giuseppe Terragni, Mario Radice, Manlio Rho, Piero Lingeri, Edizioni Pantarei, Lugano 1979













