Il nuovo centro visitatori Fundo Moray in Perù

Il pensiero interstiziale come ‘maniera di lavorare’

n.5 settembre/ottobre 2019

Prosegue la nostra ricognizione sul progetto contemporaneo di architettura con un serrato confronto tra le riflessioni e le opere dell’architetto austriaco András Pálffy e dell’architetto italiano Walter Angonese, sulla questione della ‘continuità’. Li accomuna la convinzione che fare progetti oggi, vuol dire più che mai fare ricerca. Due maniere di lavorare apparentemente distanti e differenti l’una dall’altra, in realtà molto affini nel cercare quei materiali di varia natura e quei sottili riferimenti per tessere relazioni al di là delle epoche, quelle connessioni fra storia e presente che mettono in moto l’attività di ricerca così specifica e propria alla nostra disciplina, per la grande responsabilità che ha verso la collettività

All’inizio di ogni processo creativo si pone una domanda. Essa può sorgere da noi stessi o venire da qualcun altro, può assumere la forma del dubbio o di una questione che ci rapisce senza preavviso, quasi sorgesse dal nulla. Questo interrogarsi ed essere interrogati è per me la porta d’accesso all’architettura, il principio che mette in moto l’attività di ricerca.
Fare architettura, pensare architettura e articolarla, vuol dire cercare delle risposte. Risposte che noi stessi attendiamo e che altri si aspettano da noi; risposte a dei siti e a delle situazioni trovate, risposte a questioni progettuali o anche teoriche. L’essere architetto non corrisponde a una professione nel senso convenzionale della parola. È piuttosto una vocazione che bisogna coltivare e che richiede molto impegno.
Personalmente non credo nel talento innato; Credo invece che curiosità e passione giochino un ruolo molto più importante nello sviluppo dell’architetto. Io mi considero un prodotto di questa curiosità e di questa indispensabile passione verso il progetto. Lavorare per me è mettere in relazione – con passione – cose, spazi e anche persone, per creare qualcosa di nuovo: possibili risposte alla domanda iniziale. Credo che ogni processo creativo consista nella ‘costruzione dell’idea’. Una risposta non può (e non deve!) essere solo intuizione. Essa è invece il risultato di un processo che da un’intuizione iniziale (un presentimento inconsapevole, come sa chiunque l’abbia esperito) si evolve e si elabora attraverso una riflessione culturale, fino a raggiungere quel grado di chiarezza e oggettività che possiamo chiamare ‘idea’. Spesso si pensa che l’idea sia una sorta di folgorazione di cui sono capaci le persone particolarmente intelligenti; in tal modo il processo creativo dell’ideazione viene però sopravvalutato: solo rari geni sono in grado di trasformare immediatamente un’intuizione in un’idea, riducendo la mediazione dell’elaborazione culturale a momento irrilevante. Per il resto dell’umanità questo processo è più difficile e faticoso, e anch’io faccio parte di questa diffusa umanità.
Che cos’è però questa riflessione culturale che investe il processo creativo? Se partiamo dal presupposto che ognuno di noi, consapevolmente o meno, ha un portato culturale proprio, e che ci si può appoggiare a un’eredità culturale (anche eventualmente in chiave critica), allora occorre riconoscere in questo ‘dato’ il primo tassello della nostra attività conoscitiva. Indipendentemente da tutto quanto possiamo acquisire e imparare nelle varie fasi della vita, è questo retaggio la base sulla quale costruiamo il nostro primo appoggio. Ogni ulteriore passo ha a che fare con le esperienze che accumuliamo e con la nostra capacità di approfittarne. In altre parole, non si dà evoluzione delle nostre singole ricerche senza le conquiste della conoscenza umana che ci provengono dall’esperienza collettiva, ovvero dalla storia.
Una parte dell’eredità culturale è connessa in modo specifico alla nostra provenienza; l’altra parte è quella che ci è stata insegnata o che, lavorando e studiando, abbiamo imparato da soli. La dimensione dell’apprendimento è un processo infinito. Ciò che del sapere immenso dell’umanità possiamo sperare di imparare e di riuscire a far nostro è sempre solo una minima parte.
Per orientarsi nel vasto mare della conoscenza storica è fondamentale la capacità di costruire rapporti, connessioni: ponti culturali. Per quanto mi riguarda, credo di poter dire che la mia formazione sia dipesa da un’innata curiosità e dalla caparbia volontà di capire le cose, più che dalla lezione diretta di figure contemporanee o passate. Così, per esempio, ho sempre nutrito un vivissimo interesse per l’architettura senza autore, come quella tematizzata da Bertrand Rudofsky nel catalogo della sua famosa mostra sull’architettura anonima. Penso che in generale l’architettura vernacolare mi affascina e mi influenza molto perché mi diverto a elaborare, continuare e completare nella mia testa situazioni preesistenti. Continuo insomma a pensare che la curiosità personale sia il fattore creativo più importante del mio lavoro: la curiosità per tutto quello che ‘ancora’ non conosco e la curiosità di riscoprire sempre di nuovo ciò che ‘già conosco’.
Ogni tanto è salutare lasciare da parte la nostra disciplina per ritrovare altrove (nell’arte, nella musica, nella letteratura, nella cultura quotidiana) qualcosa di diverso e inaspettato. A mio avviso questo è più utile di tante discussioni fumose che si tengono nei circoli ristretti dell’architettura, troppo spesso pervasi da esercizi di pura retorica.
Mi si potrebbe definire un eclettico, non tanto per la maniera di rapportarmi alla nostra disciplina, quanto per il mio continuo tentativo di reinterpretare in nuove relazioni l’esistente, il già pensato, il già approvato e anche il già fallito. Piuttosto che cercare di inventare sempre qualcosa di nuovo, questo esercizio è per me più fruttuoso. È il mio modo di creare qualche cosa di nuovo.
Dobbiamo essere coscienti che noi architetti abbiamo una grande responsabilità rispetto alla società in cui operiamo e che dobbiamo legittimare il nostro lavoro davanti a essa. È la ragione per la quale mi interessa relativamente il contesto puramente morfologico nel quale agisco, mentre mi interessa molto di più quello socio-politico. Sono dell’idea che dovremmo ritornare a una maggiore sincerità in architettura, a una maggiore concretezza sostanziale; dovremmo anche essere più ‘persone’, per citare Massimo Cacciari, parti integranti di una società, e meno ‘individui’ che agiscono secondo gli orizzonti ristretti della ricerca di vantaggi egoistici.
Nel mio lavoro parlo molto spesso dello spazio interstiziale (Zwischenraum). Mi interessa molto l’interstizio tra le cose, tra gli spazi come tra le discipline, tra la cultura alta e quella quotidiana. La scoperta dei fenomeni che si instaurano negli spazi ‘tra’ è per me una continua fonte di ispirazione e di motivazione. Non sopporto quei discorsi retorici che insistono su tutto ciò che di buono ci ha portato la tradizione e quanto di male ci ha imposto il contemporaneo. Anche in questo caso mi interessano di più gli aspetti ‘interstiziali’. La storia è un bacino di conoscenze che è inutile mitizzare e dannoso ignorare. Sono molto attratto dal complesso e dalla complessità delle cose. Allo stesso tempo mi impegno, nel mio lavoro e nell’insegnamento, a rendere il complesso semplice e a conferire al semplice un certo grado di complessità. Se all’inizio di questo testo ho parlato della formazione, della Bildung, come di un processo inesauribile, aggiungo adesso che anche la mia evoluzione, la mia crescita, è ancora in cammino. Non mi sento ancora affatto arrivato. Ed è bene così.

*terminologia usata da Nicola Di Battista

Il nuovo centro visitatori Fundo Moray in Perù
Veduta della corte casa del collezionista a Bolzano
Il centro visitatori Fundo Moray
Veduta spazio interno centro visitatori Fundo Moray
Schizzo di studio nuovo centro visitatori
Veduta del padiglione con piscina Seehotel Ambach a Caldaro
Concorso di ampliamento del Kurhaus a Merano
Veduta del modello dell’ampliamento del Kurhaus a Merano
Schizzo di studio del progetto ristrutturazione Kurhaus a Merano
Veduta nuova terrazza ristorante del Kurhaus a Merano