
Il momento delle idee
Testo di Nicola Di Battista
n.3 novembre/dicembre 2018
‘…mi è parso cosa degna di uomo, il quale non solo a se stesso deve esser nato ma ad utilità anco degli altri, il dare in luce i disegni di quegli edifici che in tanto tempo e con tanti miei pericoli ho raccolti, e ponere brevemente ciò che in essi m’è parso più degno di considerazione, et oltre a ciò quelle regole che nel fabricare ho osservate et osservo.
A fine che coloro i quali leggeranno questi miei libri possino servirsi di quel tanto di buono che vi sarà, et in quelle cose supplire nelle quali (come che molte forse ve ne saranno) io averò mancato, onde così a poco a poco s’impari a lasciar da parte gli strani abusi, le barbare invenzioni, e le superflue spese, e (quello che più importa) a schifare le varie e continove rovine che in molte fabriche si sono vedute’ – Andrea Palladio
Possiamo convenire sul fatto che oggi il mondo contemporaneo, nel suo insieme, non sembra andare proprio molto bene. A dire il vero, qualche tempo fa lo avevamo immaginato migliore di quello che poi si è realizzato, ma anziché continuare a lamentarci di tutto ciò, conviene cercare di capire questo stato delle cose, che rende inefficace qualsiasi azione, qualsiasi idea, qualsiasi sforzo si faccia per migliorarlo.
Oggi tutto è diventato iperbolico, tutto sembra infinito, incommensurabile, insomma troppo per noi e non è più umanamente concepibile stare dietro a questo pandemonio di tutto. In una parola potremmo definire il momento attuale come ‘ipercomplesso’, con una immensa produzione globale, ormai troppo grande, troppo per un singolo uomo, troppo per un individuo che fa i conti principalmente e, soprattutto, proprio con il fatto di essere uomo.
Qualsiasi attività intraprendiamo, ad esempio, si affianca e si confronta con una infinità di altre attività simili sparse nel mondo, ognuna delle quali è chiaramente pensata, fatta e utilizzata nel luogo specifico in cui nasce, ma con l’ambizione di essere poi spostata ovunque e di poter rivaleggiare con tutte le altre realizzate dall’uomo sulla faccia della terra, come se questo fosse una cosa normale.
Per l’architettura tutto ciò non è possibile, perché l’architettura è profondamente legata ai territori dove si realizza; anzi, per meglio dire, è proprio un’attività che appartiene ai territori, li conforma e li definisce con meticolosa precisione, rendendoli unici. Questo vuol dire che un architetto per svolgere bene il proprio mestiere deve acquisire una conoscenza minuziosa, precisa e consapevole, del luogo in cui interviene.
Qui chiaramente non stiamo parlando solo della conoscenza fisica, tattile, materica, del luogo, ma anche di qualcosa di più complesso: l’insieme delle persone che abitano questi luoghi, con i loro usi, i loro costumi, la loro cultura. In definitiva quella totalità di cose che definisce in maniera inequivocabile l’appartenenza degli uomini ai luoghi e viceversa.
Oggi assistiamo invece all’idea che l’architetto possa intervenire dappertutto e in tempi brevi, anche in posti a lui remoti, con lavori fatti per procura, che hanno la presunzione di sapere da lontano cosa quel luogo è, cosa le persone che lo abitano vogliono, a cosa aspirano, cosa meritano. Ora, proprio questa presunzione di immaginare un progetto in questa maniera fa sì che, per forza di cose, esso diventi il più delle volte finto e inconsapevole.
Per questo c’è bisogno, per il nostro mestiere, per la nostra professione, di uno scatto d’orgoglio che ci permetta di dire: sono un architetto e sono capace di pensare, progettare, realizzare il migliore paesaggio artificiale possibile, necessario agli uomini del nostro tempo per vivere pienamente e poeticamente la loro contemporaneità.
Ma cosa vuol dire questo? Vuol dire semplicemente che abbiamo l’obbligo di esplicitare di nuovo, in maniera chiara e precisa, il lavoro che siamo in grado di fare.
Da troppo tempo la nostra disciplina ha rinunciato a difendere il proprio operato e non ha più messo in evidenza i contenuti che lo sostengono, non ha più sentito l’esigenza di raccoglierli, sistemarli e trasmetterli in una forma palese, lineare e conclusa.
Il mestiere dell’architetto per potersi dare ha bisogno di un’autorevolezza che lo sostenga, come è sempre stato; autorevolezza, che per molto tempo ha trovato all’interno di una teoria capace di supportarlo. Da qualche decennio l’architetto ha rinunciato invece all’idea che la propria disciplina possa e debba manifestarsi solo all’interno di un sistema teorico che la renda trasmissibile, e quindi condivisibile, e proprio per questa ragione autorevole, trovando più semplice cercare autorevolezza nell’atto creativo inesplicabile, assoluto e perentorio.
Quale stolta decisione è stata presa in questa maniera, rinunciando di colpo a quel formidabile patrimonio culturale di conoscenze che, per centinaia di anni, l’aveva alimentata e autorevolmente sostenuta. L’architetto ha pensato che così facendo si sarebbe liberato dalle costrizioni che tale palinsesto di conoscenze poneva alla propria libertà, al proprio genio creativo; genio che perciò si sarebbe così potuto manifestare liberamente al di fuori di regole che fino a quel momento lo avevano costretto.
Ora, possiamo dire con certezza che tutto questo è stato fatale e catastrofico per l’architettura e per gli architetti che, con la scusa della creatività, hanno fatto tutto quello che avevano voglia di fare; riducendo il loro fare a un semplice fatto meccanico in sé, lo hanno costretto alla propria solitudine.
Una sorta di catastrofe ecologica ha invaso il mondo e non basta aver disseminato qua e là qualche buona architettura, siamo oramai arrivati a un punto di non ritorno, con la globalizzazione che ha imposto le sue regole totalizzanti e univoche, valide per tutti, in ogni dove; la cecità con cui abbiamo vissuto tutto questo ci ha dato la sensazione di farla franca, salvo oggi risvegliarci come dentro un incubo, dove facciamo fatica persino a comprendere cosa e come sia successo tutto ciò, impossibilitati a dare risposte.
Di fronte a questo stato delle cose, come architetti, e a maggior ragione come architetti italiani, abbiamo invece il dovere di dare risposte e per questo cominciamo a farlo noi dalle pagine della nostra rivista, con due proposte concrete. La prima è quella di riconoscere la indispensabilità di avere, oggi, di nuovo un sistema teorico capace di sostenere il lavoro dell’architetto, rendendolo il più possibile trasmissibile, affinché possa essere discusso, capito e anche, se necessario, confutato e cambiato, ma sempre con il fine di renderlo ancor più condivisibile. La condivisione per l’architettura è necessaria al suo potersi fare, è la prima e irrinunciabile condizione per manifestarsi, e dimostrare così, con evidenza, le proprie capacità di rendere migliore la vita degli uomini.
Non possiamo adesso soffermarci troppo su questo argomento, che meriterebbe molta attenzione, ma è sufficiente dire qui cosa intendiamo per teoria, a cominciare proprio da quello che non dovrebbe essere: per esempio non pensiamo che essa debba essere frutto di erudizione, o almeno non solo di quello, che comunque non le è essenziale; non pensiamo neanche che essa debba avere la presunzione di determinare dei ‘metodi’ con criteri scientifici, che diano risultati certi: essi non hanno nulla a che fare con la disciplina dell’architettura.
Entrambe queste questioni sono al di fuori dei nostri pensieri. Piuttosto, con la parola teoria vorremmo descrivere semplicemente la maniera di lavorare dell’architetto, che lo obblighi a dire per esempio come fa il proprio lavoro, consapevoli altresì che la teoria non è altro che un a priori, espresso prima di fare il lavoro stesso, che resta comunque la priorità.
Questo obbligo a dover descrivere il proprio lavoro viene dalla condizione che esso non è, e non può essere, solo un fatto personale, ma al contrario un lavoro dai caratteri eminentemente collettivi. A tal proposito le poche parole di Andrea Palladio, riportate in nota, sono illuminanti, quando dice “…onde così a poco a poco s’impari a lasciar da parte gli strani abusi, le barbare invenzioni, e le superflue spese…”. In queste semplici parole sono racchiuse le intenzioni che sottendono tutta la sua opera, diventando così l’architrave portante della sua maniera di lavorare, quindi della sua teoria. Solo una teoria del progetto chiara e ben esplicitata può creare le basi solide per realizzare quella condivisione collettiva così necessaria all’architetto, la sola in grado di fornire i mezzi per la costruzione, indicarne lo scopo e rendere unitario quanto progettato. Consapevoli comunque che sarà solo il progetto finito a dare o meno le risposte che cercavamo e anche a riposizionare, volta per volta, con la propria evidenza quanto la teoria aveva enunciato a priori. La seconda proposta che vogliamo fare è intimamente legata alla prima, anzi se vogliamo ne è proprio la logica conseguenza e deriva da quel ‘volta per volta’ citato qui sopra, che nella nostra disciplina diventa ‘caso per caso’. Ora, se l’architettura è un mestiere, un’arte collettiva, come noi profondamente crediamo, si capisce bene che le condizioni attuali non siano ideali perché essa si possa realizzare. Infatti, la mondializzazione delle nostre vite le ha tolto quanto di più prezioso aveva: l’essere profondamente e indissolubilmente legata ai luoghi a cui appartiene.
Oggi se vogliamo un cambiamento, e noi lo vogliamo, se vogliamo che l’architettura torni a essere per gli uomini quello che per molto tempo è stata, e ancora potrebbe essere, dobbiamo rinunciare alle chimere di eldoradi in giro per il mondo; non si può avere la presunzione di fare tutto dappertutto, bisognerebbe magari fare meno, ma meglio e, innanzitutto, lavorare a ricreare le condizioni per il fare.
I passaggi sono sempre gli stessi: consapevolezza, immaginazione, mestiere, libertà, come altre volte abbiamo avuto maniera di dire. Sono questi i momenti in cui ci piace dividere la pratica del progetto di architettura, separandoli solo per ricondurli, poi, più facilmente a unità, nel lavoro.
Si capisce allora che realizzando progetti seguendo questi principi, ognuno di essi avrà una storia a parte, diversa da tutte le altre.
Ogni progetto porterà a una soluzione unica e particolare, che apparterrà solo al luogo per cui è stata pensata e alla committenza che l’ha voluta e non sarà assolutamente possibile ripeterla altrove. Il progetto, quindi, come un unicum, ma intellegibile perché frutto di un discorso condiviso ed esplicitato prima.
Per questo pensiamo che oggi sia il momento delle idee e che solo lavorando a partire da questa condizione teorica generale – messa in pratica con la realizzazione di progetti studiati ‘caso per caso’ – l’architetto può dispiegare tutto il proprio sapere e la propria competenza, riconquistando così la reputazione che ha perso per avere di nuovo il rispetto e la riconoscenza delle comunità cui avrà la fortuna di poter dedicare il proprio ‘saper fare’.
E se tra essi ve ne sarà qualcuno che eccellerà nei risultati del proprio lavoro non vorremmo più chiamarlo archistar ma semplicemente Maestro e seguirne l’insegnamento.
