Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma

Il futuro prima o poi arriva

n.6 novembre/dicembre 2019

La prestigiosa Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma ha subìto negli ultimi anni un vero e proprio tsunami culturale, a provocarlo è stata una cinquantenne dall’aspetto gentile e affabile, ma anche inflessibile e molto determinata: Cristiana Collu. Con la mostra “Time is out of joint” scardina le tradizioni alla ricerca di un tempo che va ricomposto, “messo al diritto”, cercando di ritrovare lo spirito di questo luogo con un appello che chiama in causa tutti, “per il cambiamento di domani, per un’urgenza di futuro che viene”. Qualcosa di simile deve aver animato un tempo anche la mitica Palma Bucarelli di cui Cristiana Collu raccoglie la pesante eredità. Con generosità e con la passione di sempre racconta ai nostri lettori la sua straordinaria storia

Allora, visto che cerchiamo l’inizio, bisogna risalire a un’esperienza detonante, che è anche una sorta di colpo di fulmine. Nel 1995 ero a Madrid per fare un dottorato in storia dell’arte medievale e finisco con due master e un corso di specializzazione in museografia e museologia. Tutta colpa di una mostra che ero andata a vedere al Reina Sofia, una mostra che all’epoca aveva suscitato moltissime polemiche, “Cocido y crudo”, di Dan Cameron; una mostra per me dirimente, lì c’è stato l’incontro, ti accorgi che è successo qualcosa.
E da lì, la formazione da alto-medievista, insieme alla direzione dei miei studi – forse un po’ generica ma appassionata – hanno determinato il mio percorso, e il mio avvicinamento all’arte contemporanea ha iniziato a prendere una forma più concreta.
C’è un altro episodio, accaduto sempre a Madrid che vorrei ricordare, anche rispetto a quello che vorrei dire dopo sui musei e sulla cultura. Vennero a trovarmi degli amici dei miei che mi chiesero cosa volessi fare da grande e io la sparai grossa, rispondendo con una sorta di slancio e un po’ di orgoglio per darmi forza: “Voglio fare la direttrice di musei”, salvo poi vergognarmene subito dopo, sapendo di essermi spinta troppo in là.
Questi episodi dimostrano che bisogna stare sempre in allerta, perché il futuro prima o poi arriva, lo incroci questo destino, e bisogna saperlo riconoscere, nel senso che lo devi accogliere e penso che al Reina Sofia con “Cocido y crudo” io sono stata accogliente, mi sono fatta un po’ travolgere e a quel punto tutto poteva succedere. È quello che dice Georges Didi-Huberman in merito alle immagini che ci toccano, e questo non vale solo per le immagini.
Aver detto qualcosa che non avevo neanche mai pensato, è stato in quel momento un po’ come aver pronunciato il mio destino – stimolata da quelli che non credevano assolutamente in me, tanto meno in quello che stavo facendo, e questo lo dico soprattutto per le nuove generazioni – andando a frugare, a pescare, con questo dire, molto in profondità, e il fatto che sia affiorato mi ha certo messa in imbarazzo, però era anche come segnare un apice e dire “voglio il massimo”.
Ero molto giovane e questo desiderio del massimo è un po’ quella spinta che a quella età si deve avere; era l’utopia, l’impossibile, che tuttavia si lega anche al fatto del “dire”: se cominci a dirlo, a verbalizzarlo, allora puoi anche farlo. Ricordo che quando feci il concorso per il Mart, nella conversazione dissi che partecipavo per vincere e siccome si dice sempre che uno partecipa per partecipare, dire che partecipavo per vincere poteva sembrare arrogante, ma non lo era, perché io non ero lì di passaggio, per provare questo e poi anche quell’altro. Per me era dire “io mi metto in gioco, ci sono tutta, e se vinco”, come poi peraltro è successo “io mi trasferisco, io vado, io faccio, io mi consegno completamente a questo progetto”. Questo è il massimo.
C’è questo discorso e poi c’è anche un’altra questione che secondo me è interessante e va detta. È una cosa che dico ex post, la questione dell’avventura, con tutto quello che questa parola significa. L’avventura è il nostro percorso, è avere fiducia, è credere che il futuro – quello che ci viene incontro e quello a cui noi andiamo incontro – ha possibilità per noi. È come quando in architettura si pensa uno spazio, si intravedono in quello spazio delle possibilità, un’idea, un progetto. Che poi questo sia un progetto felice o meno lo si vedrà alla fine.
Tornando a quel “partecipo perché voglio vincere”, era per me un atto di rispetto, sono qua perché sono seria, per questa volontà, “volli, e volli sempre, e fortissimamente volli”. Questo volere strenuamente era una cosa che mi diceva mio padre e mi è rimasta impressa. Se non si vuole con quella energia, con quella forza, non succede nulla. Dobbiamo stare agganciati al nostro desiderio, non perdere contatto con esso.
La volontà è fondamentale perché sostiene la nostra determinazione, fa accadere le cose.
Oltre a questo, così chiudiamo questo aspetto della formazione visto da un altro punto di vista, c’è un altro episodio importante che si lega a questo discorso delle relazioni, quello di mettersi in relazione con le cose che ti succedono.
Quando partecipai al concorso per il Man e lo vinsi, io non sapevo cosa fare. Ero a Roma, iniziavo la carriera universitaria e la vita è sempre così, o non si ha nulla oppure ci fa scegliere tra più possibilità. In quel caso potevo stare a Roma oppure accettare di andare a Nuoro, avevo 27 anni, iniziavo a lavorare e cercavo conforto a Santo Stefano del Cacco. Andavo al vespro a sentire i benedettini, in quella dimensione in cui si vuole andare in deroga e si ha bisogno che qualcun altro decida per noi. Però non succedeva granché, quindi chiamo mio padre, che è stato quello che mandò a mia insaputa i documenti per partecipare a quel concorso e gli dico “guarda io però non so cosa fare” e lui mi rispose: “Senti, tu a 27 anni puoi diventare la direttrice di un museo che non esiste, è la cosa migliore che ti possa accadere”. Difatti vinsi il concorso per l’istituenda pinacoteca provinciale di Nuoro, cioè qualcosa da farsi. La direttrice del museo che non esiste era il massimo e con questa ironia presi sul serio questo lavoro tutto da fare. Poi sono stata lì, felicemente, per molti anni, dal 1997 al 2011 e sono andata via solo quando ho sentito che qualcosa stava cambiando.
Dopo il Man di Nuoro è arrivata l’esperienza del Mart di Rovereto che è durata tre anni molto intensi, tanto da sembrarne dieci, dove ho fatto dei progetti incredibili, magnifici e di grandissimo livello.
Questi due musei sono luoghi eccentrici, cioè fuori dal centro, ma entrambi con una personalità molto spiccata, macchine che resistono. Il Man è imploso e si contrae, crescendo non ha trovato il suo spazio nel tessuto urbano e non ha quindi potuto espandersi e avere una possibilità di futuro.
Mentre, parlando in termini di architettura, al Mart l’architettura di Mario Botta ferma quel museo, ne fa un museo ritratto, con la montagna alle spalle, tutto indietro rispetto alla città. Un museo molto assertivo dal punto di vista architettonico, che ho sempre definito muscoloso e con cui non era proficuo ingaggiare certe lotte. Un luogo con un destino che comincia a farsi vedere rispetto all’evoluzione dell’istituzione. Anche lì, in un certo momento, ho sentito un punto di rottura e non ho esitato ad ascoltarlo, forse anche questa volta possiamo parlare di un gesto radicale, di una certa radicalità.
Penso che il mio mestiere, soprattutto a un certo livello, non si può fare se non in piena aderenza alle cose in cui si crede. Non si può andare in deroga. La visione deve essere salva, poi ci sono sempre tutte le declinazioni che il nostro lavoro richiede, le negoziazioni, i punti di incontro, però non si può mai mandare in deroga una visione. Avevo deciso quindi di andare via alla fine del primo mandato, annunciandolo con qualche mese di anticipo.
Era il 2015, sono andata via facendo un gesto forte, senza avere un altro museo dove andare, o comunque un altro lavoro: io vado via non perché ho qualcos’altro, ma perché questo progetto non mi corrisponde più. Quindi ho preso un rischio e a gennaio del 2015 ho partecipato a due concorsi, uno per la Galleria Nazionale, l’altro per l’lsre (Istituto superiore regionale etnografico di Nuoro) e dissi, qualora ne avessi vinto uno: “Il primo che vinco vado, accetto”. Quando poi il primo fu Isre qualcuno mi disse che la mia carriera era finita. Mi difesi da questa affermazione, che sentii forte, perché era anche un bivio per la mia vita e pensai: “È una parentesi che non compromette niente”. Nello stesso tempo tornavo dove avevo cominciato, era per me come andare alla fonte facendo un percorso a ritroso, andare all’origine, o andare contro corrente rispetto a quel punto sorgente che è l’unica modalità che m’interessa.
Quando poi mi arrivò una telefonata da Roma non ci ho pensato due volte, perché quella era la mia prima scelta, anche se avevo iniziato un lavoro con cui ero in sintonia e che mi piaceva molto, ero felice di stare lì. Arrivo a Roma e inizio a lavorare il 2 di novembre, che è il giorno dei morti, sotto i migliori auspici penso, perché sotto la protezione del mio babbo che non c’è più dal 2002 e che è stato l’impulso per iniziare il mio percorso professionale, quindi ho detto: “Lassù qualcuno mi ama e continua ad accompagnare questo mio viaggio, questa mia avventura”. Lo dico perché a volte giochiamo con queste questioni antropologiche e anche culturali che condizionano la nostra vita e sappiamo tutti il grande lavoro che bisogna fare per sbriciolare quelli che sono gli stereotipi, le resistenze, che noi tutti abbiamo, anche per aprirci a una comprensione più libera delle cose che ci accadono.
Qui, a La Galleria Nazionale, la mia prima azione è stata ascoltare, comprendere il luogo e lo spazio architettonico è stato fondamentale. Ancora una volta con consapevolezza mi sono messa in ascolto, ad ascoltare anche quello che non fa rumore, senza imbarazzo, il silenzio ci dice. Per questo non ho mai sentito ingombrante né la galleria né chi l’ha diretta prima di me, come la mitica Palma Bucarelli, perché mi misuro sempre con il mio progetto; sono io e il mio progetto, io e l’istituzione e ho sempre privilegiato questa relazione singolare.
Ho trovato una galleria chiusa dove la luce naturale non entrava da nessuna parte e dove l’architettura di Cesare Bazzani era come se fosse un po’ sepolta, e proprio la luce è stata la condizione per riscoprire la relazione dell’architettura con tutto ciò che sta fuori della galleria. Creare questa continuità tra dentro e fuori, che si interseca e si intreccia, è stata una necessità. Ma si trattava anche qui soprattutto di onorare una importante struttura urbana della città e a tal proposito mi piace ricordare una cosa che secondo me è fondamentale e si dimentica spesso. Tra i comandamenti si dice “Onora il padre e la madre”, quindi noi possiamo pensare non solo al padre e alla madre, ma anche alle origini, e si dice onora e non ama. La richiesta non è di amare ma di onorare e ci vuole tutta la nostra consapevolezza per farlo.
Altrimenti saremo sempre ostaggio delle nostre passioni, che poi però si esauriscono. Dobbiamo sempre avere questo slancio, questa energia, questa presenza, che ci fa fare le cose.
In questo luogo e con la storia di questa galleria, l’intersezione delle arti era proprio nelle corde. Il decreto che riguarda la nascita della galleria recita che venne istituita per conservare l’arte del presente. Allora come quando l’inizio determina il nostro percorso, questa galleria si continua a chiamare “Galleria d’arte moderna e contemporanea” proprio per questo suo atto di battesimo dove c’è scritto che raccoglierà le testimonianze del presente. Quindi i presupposti per una lunga vita del museo erano il futuro, questo presente che poi diventa il nostro passato e che è sempre intrecciato; per questo l’allestimento di “Time is Out of Joint” è stato possibile.
Intercettava Roma, mi sembrava di mettere in campo un discorso così familiare con questa simultaneità temporale che diventa parte di uno scenario quotidiano e che, straordinariamente trasferita dentro un museo, fa saltare il banco, perché lì ci sono le aspettative, gli a priori, però alla prova del tempo sta vincendo la partita.
La mia scelta è stata: io parlo attraverso quello che faccio, che è sotto gli occhi di tutti, prendo una gran parte della scena per cui non mi resta poi che tacere, per dare la possibilità agli altri di dire, perché mi interessa quello che mi dicono. Ora non pensavo certo con quello che ho fatto a Roma di creare tanto scompiglio. Ho ragionato in termini architettonici, quello che mi ha guidato è stata la composizione. Ho trovato un luogo in attesa e ho pensato che fosse urgente riconfigurare e riposizionare la galleria come spazio architettonico, come contenitore, in relazione al contenuto: la sua prestigiosa collezione.
Poteva esserci anche il gesto radicale, ma non era mai una provocazione.
Alla fine cercavo l’armonia attraverso la composizione di tutti gli elementi e poi mi piaceva l’idea che chi visita la galleria è in qualche modo un regista. Questo è l’aspetto dinamico di chi si muove all’interno dello spazio e compone la sua narrazione, il suo montaggio è ancora una volta una composizione: m’interessa l’idea del dispositivo.
Oggi si parla tanto di cultura e invece bisognerebbe semplicemente farla, ma secondo me il problema della cultura è che non capiamo, non sappiamo dove si produce cultura, dove è che si sta facendo, chi è che la fa e neanche sappiamo riconoscerla come tale. Oggi pare mancare la consapevolezza del cambiamento che è sempre in atto, malgrado appaia a noi solo come risultato e a tal proposito cito sempre Péter Esterházy che dice: “Ma lei è mai vissuto in un’epoca che non fosse di transizione?”.
Tutte le epoche sono in transizione, c’è il tempo che passa, questo processo è inesorabile. Siamo sempre più abituati a vedere le cose come risultato, il processo ci sfugge. Il risultato ci sorprende a volte, eppure sappiamo che sono poche le cose ex abrupto. Sappiamo che le cose non succedono così per caso e possiamo sempre ripercorrerne il processo, ma non lo percepiamo come tale, facciamo sempre i conti con il risultato.
Ancora una volta in questa maniera manchiamo all’appuntamento con le nuove generazioni, anche se sono loro che ci insegnano dove sta andando il mondo, ce lo dicono, e noi ancora una volta siamo incapaci di dare qualcosa, oltre a consegnargli un futuro abbastanza compromesso.
Penso che tutto quello che a noi sembra terribile oggi, sia al contrario qualcosa che conta molto, ma non abbiamo gli strumenti per capirlo e forse neanche i più giovani hanno gli strumenti per farcelo comprendere, riescono solo a viverlo.
L’unica cosa che dobbiamo augurarci è che loro almeno stiano producendo, perché se è vero che anche in tarda età si possono fare cose straordinarie, come Robert Morris ha dimostrato con la mostra che gli abbiamo dedicato, è però indubbio che solo la giovane età dà quello slancio che fa aggredire la vita, mordere le cose e permette davvero di esprimere qualcosa da lasciare in eredità al proprio tempo.

Il testo è tratto da una conversazione tra Cristiana Collu e Nicola Di Battista, Roma

Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma
Cristina Collu e Nicola Di Battista
veduta aerea prima dell'ampliamento di Luigi Cosenza
Cristina Collu e Nicola Di Battista
Tre importanti opere d'arte, realizzate in tempi diversi, dialogano tra di loro e con lo spazio
un gruppo scultoreo esposto alla mostra "Monumentum. Robert Morris 20215-2018"
Cristina Collu e Nicola Di Battista