Ritratto Giuseppe Valadier Jean-Baptiste Wicar

Della cultura

Testo di Nicola Di Battista

n.4 luglio/agosto 2019

“Perchè poi avesse una visuale dalla porta della città, detta Ostiense; ora di S. Paolo; da questa al prospetto e pronao prostilo laterale del Tempio, avrei portato una strada in linea retta, bordata da quattro fila di alberi ed elevata, affinchè fosse salva dalle alluvioni del Tevere, e così in luogo di avere una strada miserabile in tutto l’anno, sarebbe una delle miglior passeggiate di Roma” – Giuseppe Valadier

Il mondo attuale stenta a trovare i propri orizzonti di vita. Sembra non essere più in grado di sostenere il benessere raggiunto da una parte dell’umanità, ma anche incapace di accompagnare l’emancipazione delle altre parti rimaste indietro.

Il rapporto tra risorse, bisogni e consumi, lontano dal trovare un suo proprio equilibrio, giusto e solidale, genera al contrario sempre più egoismi e conflitti, provocando cecità e malessere nella maggioranza degli uomini.

A queste condizioni facciamo persino fatica a immaginare un’alternativa possibile e praticabile alla vita che ci è dato di vivere; una vita che appare, al contrario, ormai come ineluttabile e non modificabile, di cui non ci sentiamo più i principali artefici, determinata ormai completamente al di fuori di noi. Una vita che non riusciamo a costruire come abbiamo sempre fatto, passo dopo passo, azione dopo azione, a partire dai nostri luoghi, dalle nostre comunità, dai nostri bisogni, dalle nostre aspettative: in sostanza dal nostro libero arbitrio.

Tutto questo ha generato in noi una strana condizione collettiva di ‘attesa’, tra un passato a questo punto non più buono e un futuro ancora oscuro e non delineato, rafforzando l’idea che il tempo attuale non riesca più a competere con i tempi passati nell’immaginare nuovi orizzonti di progresso per le nostre vite. Ora, se questo stato delle cose ha portato la maggior parte delle persone ad aspettare che qualcosa accada, nelle nuove generazioni ha provocato invece una sorta di disinteresse verso quello che dovrà avvenire, decidendo di non decidere. 

Che cosa ci manca?

Con l’avvento delle masse e la globalizzazione, abbiamo smarrito la maggior parte dei valori e dei principi che, fino a ieri, avevano in gran parte sostenuto il mondo e, per contro, non siamo stati capaci finora di sostituirli con altri, altrettanto forti e convincenti; non siamo stati capaci di cercare, individuare, elaborare e fissare i sentimenti positivi e progressisti necessari al nostro presente, da contrapporre a quelli negativi e reazionari che purtroppo animano fortemente la nostra condizione attuale. 

Ci manca la cultura.

Iniziamo allora i nostri ragionamenti da una considerazione che possiamo rintracciare nella nostra quotidianità, essendo diventata ormai una pratica molto diffusa: l’uso disinvolto e indiscriminato della parola ‘cultura’.

Quando si vuole innalzare il livello di una qualsiasi discussione, la parola cultura compare sempre, così come quando si vuole dare valore a qualcosa in particolare; essa viene puntualmente in soccorso di chi la usa per garantire la bontà di quanto dice, certificandone l’autorevolezza.

Per quanto riguarda poi l’uso che nel nostro Paese si fa oggi di questa parola, dobbiamo constatare che è diventata una sorta di rifugio dorato sicuro, dove ripararsi per nascondere le proprie carenze e le proprie manchevolezze rispetto alla nostra contemporaneità; soprattutto essa viene usata come puntuale riferimento al nostro passato, dove in quell’ambito sono stati generati nel tempo una quantità notevole e sproporzionata di opere e manufatti, in diverse discipline, che non ha eguali nel mondo. Tutto questo è ancora più singolare se si pensa che è stato realizzato in un piccolo territorio come il nostro e da una esigua popolazione come quella che lo abita.  

La grande visibilità e l’incondizionato consenso che queste opere hanno creato intorno a loro, ha probabilmente dato alla parola cultura lo statuto e il senso positivo che essa ha assunto nella vita degli uomini, salvo poi smarrirli negli ultimi decenni, rendendo la cultura stessa prerogativa di una ristretta élite intellettuale. 

Talmente forte e convincente è stato l’uso di questa parola riferita al passato che, a mano a mano, essa ha trovato sempre più difficoltà a essere intesa come strumento d’azione necessario alla vita presente. In poche parole si è cominciato a usare questa parola sempre più a sproposito, in maniera sconsiderata e sempre meno nel merito e con contezza rispetto alla parte più materiale di essa, diventando perciò una parola vuota per il presente. A questo punto, invece di compiere un’analisi serrata, puntuale e stringente del significato e dell’uso che facciamo oggi della parola cultura, si è preferito usarla più semplicemente in maniera convenzionale, riducendola difatti a una parola morta.

Questo uso abnorme, inconsapevole e a sproposito del termine cultura, ha portato la parola stessa a perdere totalmente di senso, al punto da diventare una sorta di decorazione buona per tutto e per tutti; una parola che senza più quel suo valore reale, oggettivo, concreto, è oramai buona per nessuno. 

Si è usata questa parola per nobilitare qualsiasi azione dell’uomo, a prescindere da quale essa fosse, facendole così perdere qualsiasi autorevolezza e soprattutto qualsiasi corrispondenza alla vita reale degli uomini d’oggi.

Nessuno, o quasi, si è più preso la briga di cercare un senso per essa, un significato che fosse più adeguato alla condizione attuale. Ecco penso sia proprio questo il tema da affrontare, la vera urgenza del nostro tempo, per non doverci un bel giorno svegliare e renderci conto che la cultura – intesa come un magnifico sistema di conoscenze, di valori, di credenze, quale era – si è dissolta senza lasciare traccia.

Non si è più cercato per essa, ad esempio, un uso operativo e di azione, facendole smarrire così quel senso di concretezza e di coscienza che, nel passato, la identificava come qualcosa di vivo, di necessario, e che aveva così ben connotato la propria attività nell’aiutare l’uomo a vivere meglio e a progredire in maniera spedita verso un futuro migliore. Al contrario, la cultura evoca ormai solo una sorta di fantasma del passato; un orpello da aggiungere alle cose del presente, non più capace invece di fondarle e sostenerle per indirizzare la nostra vita.

Non pretendiamo certo noi in queste poche note di affrontare questo immane lavoro, ma forse qualche riflessione in merito possiamo farla.

Oggi non c’è università, non c’è istituzione pubblica, non c’è impresa, non c’è associazione, non c’è politica che non rivendichi il proprio fare e le proprie azioni come fatti culturali; eppure sappiamo bene che tutto questo ‘fare’ e queste tante azioni, non sono e non diventeranno di per sé cultura, a meno che non sia proprio la cultura a determinarle e a sorreggerle, cosa che oggi accade solo raramente. Al contrario la quasi totalità delle azioni, dei mestieri, dei prodotti che gli uomini d’oggi fanno e realizzano, sono sorretti da altre logiche: di profitto, di convenienza, di consuetudine, di tornaconto e tanto altro, salvo poi alla fine presentarli immancabilmente sotto il rassicurante ombrello della cultura per dare loro statuto di autorevolezza al punto che tutto diventa cultura e quindi più niente è cultura.

Ora, proviamo a restringere il campo dei nostri ragionamenti per poterli individuare meglio.

Di cosa stiamo parlando, cosa intendiamo per ‘cultura’?

Diciamo subito che non stiamo parlando qui di erudizione, né tanto meno di accademia, ma vorremmo semplicemente ripartire da una considerazione elementare e di buon senso – e proprio per questo largamente condivisibile – che identifica la parola cultura con quell’insieme di azioni che l’uomo compie per migliorare la sua condizione di vita su questa terra e tra le tante che esso compie, una delle più importanti è sicuramente il fare architettura.

Da questo punto di vista possiamo allora considerare il mestiere dell’architetto come qualcosa di squisitamente culturale e sappiamo bene che per compiere il nostro lavoro al meglio e poterlo porre al servizio della collettività, abbiamo bisogno di fondarlo culturalmente, anzitutto per sostenere e sovrintendere la nostra azione. L’obiettivo finale dell’architetto è, e resta comunque, quello di costruire manufatti dove l’uomo possa vivere meglio, e se per farlo si avvarrà di economie, di tecnologie, di saperi normativi, di saperi tecnologici e di tanto altro ancora, l’architetto resta pienamente cosciente che non saranno mai il fine del proprio lavoro, ma che resteranno solo dei mezzi, degli strumenti per realizzarlo ‘a regola d’arte’. Senza questo fondamento l’architettura non esiste, diventa solo edilizia.

Se quindi l’architettura è di per sé un fatto culturale, non resta allora che chiederci: cosa serve all’architetto per fare bene il proprio lavoro?

Sappiamo che sono tante le cose che servono all’architetto per poter operare, come abbiamo detto sopra, ma vogliamo ora soffermarci su una di queste: la consapevolezza. Acquisire la maggior consapevolezza possibile – soprattutto nel nostro tempo, diventato totalmente e colpevolmente inconsapevole – riteniamo essere la principale azione da intraprendere per percorrere di nuovo strade di progresso, capaci di portarci verso un futuro migliore, come tante volte l’uomo ha fatto nella sua lunga storia e come di nuovo può tornare a fare.

La consapevolezza, quindi, come azione rivoluzionaria rispetto allo stallo attuale delle cose; un mondo più consapevole forse si salva, un mondo inconsapevole di sicuro si distrugge e si estingue.

Cominciamo allora noi architetti a praticare caparbiamente questa azione, nel nostro lavoro quotidiano, con dedizione e con meticolosa pignoleria; facciamo della consapevolezza la solida base del nostro fare, e lavoriamo perché essa diventi anche patrimonio collettivo condiviso da altri, da tanti altri.

Nel XXI secolo, con i portentosi avanzamenti tecnologici raggiunti e con quelli che sappiamo arriveranno nel nostro imminente futuro, non abbiamo più scuse, dobbiamo ormai bandire l’inconsapevolezza, il vero dramma del tempo attuale. Questo ci porterebbe da subito verso un mondo nuovo, migliore di quello che abbiamo oggi. Una nuova consapevolezza ci renderebbe più liberi e meno passivi rispetto a quello che ci succede intorno e riattiverebbe in tutti noi le capacità cognitive e creative che ogni essere umano possiede – come con forza sosteneva il maestro tedesco Joseph Beuys quando diceva che “ogni uomo è un artista” – per andare diritti verso una vera e propria rivoluzione culturale, capace di farci finalmente entrare dentro il terzo millennio di corsa e non indietreggiando come invece stiamo facendo.

Ritratto Giuseppe Valadier Jean-Baptiste Wicar