
Costruzione, parola chiara con significati molteplici
Testo di Mauro Galantino
n.4 luglio/agosto 2019
In questo numero proponiamo ancora due punti di vista su uno dei temi più delicati della nostra disciplina, uno dell’architetto milanese Mauro Galantino e l’altro dell’architetto francese Rudy Ricciotti che si confrontano ‘sulla costruzione’.
Le parole e le opere – frutto della grande passione per la loro arte e della loro sapiente pratica quotidiana del ‘fare’ – seppure diverse e lontane nell’uno e nell’altro, testimoniano le molteplici sfaccettature di un vecchio mestiere come il nostro. Due maniere di intendere la costruzione, considerata per entrambi fulcro dei loro progetti e misura essenziale del loro lavoro
Poco prima della morte, Auguste Perret stila una sintesi delle sue riflessioni teoriche in forma di titoli, sottotitoli e occhielli, con uno stile giornalistico inconsueto. Più che un testamento, scrive una profezia riguardo gli elementi essenziali per la “sopravvivenza” dell’architettura nell’era della macchina, della rivoluzione sociale, del superamento di un’idea nazionale di arte.
Tra i tanti piccoli mantra esibiti come aforismi, quasi un indice di un pensiero articolato, abbaglia la definizione: La langue maternelle de l’architecte est la construction.
Sarebbe interessante collegare le implicazioni di questo assunto incrociando altri spunti derivati da de Saussure, da Levi-Strauss fino ad arrivare a Bachelard, ma anche scomodando la manifestazione dell’individuo che Piaget segue nelle sue ricerche sullo sviluppo percettivo dei bambini, o retrocedendo al rapporto tra lingua e linguaggio di Benjamin nelle considerazioni Sulla Lingua del suo Angelus.
Ma nella definizione dello cher maître ritroviamo una premessa alla spiegazione ontologica della ‘lingua in architettura’ che si istituisce, a suo parere, solo a partire dalla parola costruzione.
Se estendiamo il ragionamento a posteriori – con l’attenzione della critica negli anni Sessanta per il ruolo del significato nel linguaggio “la forma non segue più la funzione, ma il significato” (parafrasiamo l’ironia di Venturi con una crasi semplificatoria) – la frase di Perret ci sorprende ancora di più.
Sembra che il maestro francese voglia allertarci e dirci qualcosa non per equiparare architettura e linguaggio, ma per spiegarci ciò che ‘fonda’ la lingua-architettura. Arte ermetica, astratta, quindi antinaturalistica, antimimetica rispetto alla natura, come sosteneva Otto Wagner.
Gli architetti usano la lingua parlata o scritta, prima e dopo il progetto, per inquadrarne i principi, comprenderli, trasmetterli, ma quando devono ‘produrre’ architettura, c’è solo un universo ‘autistico’ che guida la loro ricerca: questa ‘lingua muta’ per il resto degli uomini, specialisti compresi, è la costruzione. Perché costruzione, per gli architetti, è la capacità di ‘far stare insieme il tutto del progetto’, non solo la struttura, pensando le parti e il tutto nella finalità di farle esistere fisicamente.
È sempre Perret che ci aiuta a capire meglio di cosa questa lingua muta si occupi, come si componga, come si strutturi per nominare e spiegare se stessa, e lo fa in particolare con la definizione di ‘stile’ e ‘carattere’. Stile in un’opera è ciò che permane e dipende da clima, luogo, cultura, mezzi produttivi. Carattere è ciò che afferisce agli usi (usato al plurale) perché spesso variano. Ma non si tratta di ‘un prima e un dopo’, di un essenziale e di un effimero, si tratta di due campi che devono integrarsi restando leggibili, con compiti e modalità di sviluppo distinti, che tendono all’unità.
Stile e carattere inducono due riflessioni sulla costruzione composta di ‘permanenza’ e ‘adeguamento’, poli che restano comunque espressioni di un unico pensiero costruttivo declinato guardandosi. Anzi è il pensiero costruttivo stesso che li definisce in relazione reciproca.
La permanenza, punto di equilibrio, deve pur realizzarsi in un’arte che piega non solo la gravità, ma il tempo stesso, lo sottrae a Kronos per estenderlo oltre la durata di chi lo ha abitato per primo, con una simpatia neanche tanto dissimulata per Prometeo, questa volta ladro del tempo.
L’adeguamento, aderenza alla domanda di uso anche nei risvolti simbolici, è il suo necessario contrappeso. Inflessibilità e tenerezza.
Potremmo rinominarli oggi, a distanza di un secolo, ‘macro-costruzione’ e ‘micro-costruzione’.
E potremmo pensare che la definizione di Perret discenda dall’adeguamento della nota distinzione di Bötticher, ripresa da Semper, Wagner e Berlage, tra Kernform e Kunstform, tra arte dell’ossatura (della necessità) e arte dell’apparire (della libertà), la seconda intesa come aggettivazione e completamento della natura costruttiva specifica di un manufatto in funzione simbolica. Concepimento ed epifania. Un’intuizione che poneva una prima articolazione interna al sistema apparentemente monolitico della tettonica greca. Che leggeva le pietre di cui era fatto il tempio con due angolazioni diverse.
Ma in Perret lo stile e il carattere sono anche scelta tra soluzioni molteplici offerte dai tempi nuovi: a differenza dei greci la storia gli consente una nuova generosità da accogliere a monte del progetto, che necessita di una nuova etica delle scelte. La tesi del maestro francese ci apparire nuovamente trent’anni dopo, mutata ma analoga, nella definizione di Maki della macrostruttura, tra la struttura permanente e la capsula (microstruttura tecno-nomade).
Una distinzione verso l’interno e verso l’esterno dell’opera che ci allerta sulla natura complessa e combinatoria dell’architettura, il cui esito è sensoriale, ma la cui comprensione è riposta nel passaggio tra uso e significato, sia che si tratti di capire il Partenone o di capire il Centre Pompidou.
Inscindibili ma leggibili, macro e micro sono figlie entrambe di una visione del produrre elementi in un’epoca in cui i canoni, come ci aiuta a capire Rogers, sono scomparsi come codici autonomi. Canoni ed elementi si producono sinergicamente in quella bella definizione anticipata da Cattaneo di “Architettura polidimensionale”.
Macro e micro stanno insieme nel nuovo concetto di ‘montaggio’ che aggiorna la parola composizione e che ha la capacità di ‘maneggiare’ tanto la generale dimensione fisica della tettonica, che la sua declinazione in punti specifici, sempre espressioni del tutto.
In due brevi scritti sull’argomento, James Stirling traccia le linee del suo pensiero ‘costruttivo’ sul tema struttura-uso-forma. Con la nota ironia, in un convegno di ingegneri strutturisti, dichiara il suo disinteresse per la struttura. In verità ciò di cui ragiona è l’allora recente eredità della mal digerita semplificazione formalistica per il ‘primato’ della struttura, intesa come esibizione di un nuovo codice classico. Come ‘finta verità’.
Una semplificazione stigmatizzata da Venturi nel suo grande libro nel quale, con una strumentalità giustificabile solo con la difesa della propria tesi, usa ingenerosamente Mies come esempio da cui è discesa questa nuova accademia.
James è ancora più fine di Robert, riporta il termine ‘struttura’ al suo valore produttivo della forma e, soprattutto, dello spazio. Non è il disinteresse per la struttura, ma la sua sclerotizzazione in ‘ordine assoluto’ che Stirling contesta, un assoluto che cancella il concetto polifonico di costruzione appiattendolo su un solo elemento. A ogni necessità, a ogni variazione di spazio, a ogni uso, dice l’architetto britannico, occorre essere liberi di scegliere la struttura conforme, anche nello stesso edificio. Esattamente il contrario del suo rifiuto, è la sua ricollocazione all’interno di una visione che fa dell’ossatura il principio di realtà profonda dello spazio abitato. E ristabilisce al contempo il primato della costruzione complessiva sulla semplice struttura, o sulla ‘struttura semplice’.
Con il piccolo saggio sul Kit di montaggio Stirling chiarisce infine la profondità del suo interesse per la struttura intesa come ‘mezzo’ per produrre architettura grazie al principio dell’assemblaggio guidato dalla costruzione. Come si legge in tutte le istruzioni degli oggetti che si acquistano in scatole e si devono comporre, l’idea di architettura che collega la Biblioteca di Storia di Cambridge al Centro Ricerche di Melsungen si fonda su una relazione stretta tra pertinenza intrinseca dei componenti e loro logica aggregativa, in un rapporto inscindibile tra codice ed elementi, il tutto guidato dalla natura costruttiva dei pezzi e pertanto dalla loro intrinseca vocazione a relazionarsi reciprocamente.
Le Maisons Jaoul di L.C. costituiscono l’orizzonte di partenza di questa convinzione.
Il filo rosso tracciato da Perret, attraversa molta parte dell’architettura del Novecento e senza quella precisa intuizione, riemersa più volte nel tempo, non capiremmo le meraviglie di Albini e Scarpa nei cambi di scala che producono ‘matrioske concettuali’ tra grande e piccolo, senza mai poter parlare di ‘dettaglio’ perché nelle loro opere è solo l’ultima incarnazione micro-costruttiva.
Sarebbe meno chiaro l’universo di Kahn, la sorprendente capacità di ‘respirazione e disarticolazione’ dei suoi edifici senza perdere unità. Non potremmo cogliere le relazioni tra la parte con il tutto (e viceversa) delle opere più significative o della loro ossessiva riduzione a un unico meraviglioso registro come in Ando. Sono relazioni tra ‘tutto e parte’ che l’architettura moderna erudita ha saputo ampliare derivandole ed esplicitandole dalla sua sorella maggiore figlia di Pericle.
In compenso senza il disvelamento operato da Perret non ci accorgeremmo di quello che ci accade intorno e forse sarebbero più tollerabili gli orrori contemporanei che invertono il processo partendo dall’immagine per violentare le capacità tecniche attuali (capaci di ‘quasi tutto’) spingendole oltre se stesse, la loro natura, lo stesso senso della loro esistenza, al fine di rendere possibile la costruzione insensata di una vision.






